Quando il convoglio si ferma, i bambini si avvicinano salutando festosi e tendendo le mani, sicuri che qualcosa, una bottiglietta d'acqua o un dolcetto, vola sempre fuori dal finestrino. Sembra una scena del dopo guerra italiano, invece siamo ai giorni nostri, anche se a 3.000 chilometri di distanza. In Afghanistan. Appena fuori dalla base internazionale di Herat, impegnati un'azione di controllo e bonifica del territorio affidata a un'unità genieri. Quasi quattro ore di missione, conclusa con "tutto bene, area sicura".
Fa correre un piccolo brivido lungo la schiena prepararsi a uscire, devi indossare giubbotto antiproiettile ed elmetto e ascoltare le ultime raccomandazioni in caso di attacco, come stare sui mezzi ultra blindati, muoversi solo dopo l'approvazione del sottufficiale, poi la partenza. Entriamo in un "cougar" un mostro da 12 tonnellate protetto in certi punti da tre strati di acciaio spesse oltre 7 centimetri. "Venti chili di tritolo ci farebbero fare solo un piccolo sobbalzo - ci rassicura il sergente - Per farci qualche danno ce vorrebbe almeno un quintale, impossibile da celare sotto il terreno".
Sicuri di non venir sparati in aria, iniziamo la nostra missione in un convoglio di una decina di mezzi, ciascuno con proprie caratteristiche. C'è quello con un'antenna telescopica che si alza fino a sette metri, alta definizione, zoom, capace di scrutare a decine di metri di distanza, l'altro dotato di benna per scavare e portare in superficie eventuali ordigni, un terzo con una sorta di "rullo" per far detonare senza danni le mine meglio celate, un quarto con apparati elettronici per impedire l'attivazione a distanza.Ci segue un'ambulanza, anche questa blindata, con medico a bordo, sopra volteggiano due elicotteri da combattimento, dotati di telecamere che trasmettono a terra le immagini dall'alto. Insomma tutto sotto controllo. Sembra quasi che si corrano più rischi ad attraversare un incrocio in città.
Ci spingiamo per oltre trenta chilometri, dobbiamo infatti "ripulire" il percorso che in seguito verrà coperto da una seconda colonna, destinata chissà dove: segreto militare. Per strada le fermate sono frequenti. Ogni elemento sospetto provoca una verifica accurata. Un'auto in sosta (potrebbe essere piena di esplosivo), un segno strano sul terreno verificato (potrebbe essere un punto di riferimento per l'attentatore nascosto che vuol far detonare l'ordigno, sicuro di farlo quando il bersaglio ci sta passando vicino). Uno strano oggetto che sporge dal terreno provoca una lunga sosta. Un geniere scende, gli gira attorno, lo scruta con attenzione. Altro falso allarme.
Beh, siamo nell'Afghanistan del 2015, gli "insorgenti", termine generico con cui si indica un po' tutti, dal talebano al criminale comune, sono all'angolo, sporadiche le loro sortite, costretti a stare nascosti dai controlli delle forze della coalizione e delle ricostituite forze armate afghane che stanno ormai prendendo il saldo controllo del territorio.
Così la nostra missione si conclude dopo quattro ore con il rientro a Camp Arena, come è stata ribattezzata la base di Herat. Unico diversivo: un mezzo della polizia rimasto senza carburante proprio a poche centinaia di metri dalla caserma, contava di raggiungerla, ha fatto male i conti. L'agente si sbraccia, ferma il convoglio, dopo un primo istante di perplessità i militari capiscono cosa gli è capitato e gli passano una tanichetta con cui fare il pieno. E i bambini, tanti, sul ciglio della strada, salutano, ridono, si danno di gomito, come i loro coetanei italiani con gli americani nel'45.
E come loro, sperano in un'imprevista fermata per tendere le mani, qualcosa dai finestrini piove sempre e loro la raccolgono festosi. Un'immagine di un Paese che sta faticosamente cerca di di tornare a una normalità che manca ormai da oltre trent'anni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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