È di questi giorni l‘appello lanciato dal Giornale affinché il Governo Italiano provveda a colmare il vuoto legislativo riguardante la salvaguardia e la tutela delle decine di interpreti afgani, e relative famiglie, impiegati negli anni presso il Contingente e le unità militari italiane dislocate in Afghanistan che la scadenza al 31 dicembre scorso del loro contratto rischia di esporre a possibili e probabili ritorsioni per il proprio operato.
Non intendo dilungarmi in questioni attinenti alla sfera giuridico-amministrativa o a quella politica. Mi limito a offrire una chiave di lettura legata alla mia personale esperienza.
Premetto che le parole proferite dalla M.O.V.M. Prof.ssa Paola DEL DIN, che mi onoro di conoscere personalmente, dovrebbero, da sole, convincere le nostre Autorità politiche al totale accoglimento delle istanze oggetto del dibattito.
E se ciò non dovesse essere sufficiente, le innumerevoli esperienze vissute sul campo da tanti Comandanti e Colleghi che da quella collaborazione hanno tratto un indubbio valore aggiunto nell’elaborare il proprio processo decisionale dovrebbero bastare a sottolineare il prezioso e imprescindibile valore del contributo fornito alla missione da parte degli interpreti locali.
Sono stato il Comandante del PRT XIV (Provincial Reconstruction Team XIV) in HERAT nel periodo Ottobre 2010 – Aprile 2011.
Uno dei compiti principali dell’Unità, e del suo Comandante in primis, era quello di condurre in tutta la Provincia attività di “ingaggio” dei leader locali al fine di guadagnare la fiducia non solo di questi ultimi, ma della popolazione locale e poter così concordare e condurre di concerto quelle attività di ricostruzione e sviluppo fondamentali per il ripristino di condizioni di vita accettabili.
Quindi, un’attività oltremodo sensibile, che richiede equilibro, capacità di ascolto e di giudizio, abilità nel compromesso, fermezza e, nello stesso tempo, elasticità, volontà di dialogo, discernimento tra ciò che è vero, verosimile o “fake”. E tutto questo, in un contesto complesso e così lontano dalla nostra forma mentis occidentale, caratterizzato poi dalla percezione costante che chiunque vesta una uniforme straniera sia comunque un invasore (anche se animato dalla più pia delle intenzioni) che rendeva il quotidiano una scommessa continua.
Gli interpreti afgani che ho avuto come collaboratori per tutto il periodo del mio mandato sono stati prima di tutto dei mediatori culturali. Essi sono stati il complemento e il completamento alla formazione e all’addestramento ricevuti a premessa dell’impiego in Teatro Operativo.
Si è trattato pertanto di un rapporto dai molteplici contenuti, dal reciproco scambio socio-culturale all’approfondimento della realtà locale e per gli interpreti tutto ciò ha portato al perfezionamento degli strumenti di comunicazione verbale e non verbale; alla traslitterazione delle posture, del linguaggio del corpo, delle percezioni che rendesse aderente e comprensibile nella sua essenza il messaggio da veicolare. Tutto ciò ci ha aiutato a fare meglio e a fare di più.
Sono stati funzionali alla missione. Sono stati dei nostri. “Brothers-in-arms”.
Certo, l’obiezione principale è quella che in fondo si tratta di una prestazione di lavoro retribuita: nulla è dovuto oltre al soldo pattuito. Ma così non è stato, per quanto mi riguarda.
La relazione instauratasi tra chi ha lavorato costantemente “spalla a spalla” 24 ore al giorno, sette giorni su sette, si è basata essenzialmente sul rispetto e sulla fiducia reciproca, valori espressi attraverso la condotta di una attività sì professionale, ma che afferiscono non tanto e non solo a noi stessi come individui, come soldati, ma a ciò che rappresentiamo sul campo: la nostra Bandiera e la nostra Patria.
Nei loro confronti non abbiamo alcun debito, ma dovremmo esprimere un senso di gratitudine per averci aiutato nel compiere al meglio il nostro dovere.
E a noi hanno insegnato che nessuno resta indietro.
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