Per superficie, Takayama è tra le città più grandi del Giappone. Solo Tokyo la supera, per un pugno di metri quadrati. Ma a Takayama, gioiello prezioso della prefettura di Gifu nell’area montuosa dell’Hida, non ci sono grattacieli.
Sembra che la città abbia scelto di non entrare nell’ultramodernità. Il tempo qui s’è fermato e i ponti che innervano il centro sono ancora guardati a vista da decine e decine di spiriti, creature più o meno magiche e mostruose, dèi e demoni. Che proteggono un autentico tesoro culturale e spirituale del Sol Levante.
Se il ponte Nakabashi, di rosso vermiglio dipinto tra i ciliegi e persino sotto la neve, è la cartolina di Takayama, il più fotografato dai turisti che da ogni parte del Giappone raggiungono le Alpi nipponiche, quello di Kajibashi – dai colori più chiari e tenui – più che le due rive del fiume Miyagawa, unisce l’anima giapponese del passato con quella del presente.
Ci sono tre statue a guardia del ponte. Due di bronzo e una di legno. Gli occhi di un occidentale si scontrano con quelli di tre mostriciattoli. Sembrano più simili a cartoni animati che a icone soprannaturali, rispettate e temute. Sulle opposte ringhiere del Kajibashi, camuffate del colore del legno, l’uno di fronte all’altro, vigilano un ashinaga e un tenaga. Sono due spiriti dotati di una loro complessa e curiosa corporeità, indivisibili e complementari. Di aspetto umanoide, l’ashinaga ha delle gambe lunghissime e sproporzionate mentre il tenaga conta su braccia altrettanto lunghe. Agiscono sempre insieme come da antica alleanza che, secondo la mitologia nipponica, fu sancita subito dopo la notte dei tempi. Il tenaga (lunga mano) sale sulle spalle dell’ashinaga (lunga gamba) e “uniti” non c’è pesce che possa scappar loro. Dopo la pesca, si dividono equamente il bottino. Guai a farli arrabbiare. Nessuno può permettersi di offendere impunemente loro e il fiume in cui nuotano decine di stupende carpe variopinte, bianche, rosse e scure.
Nelle vicinanze del Kajibashi, proprio all’ingresso della stradina che conduce dove in cui ogni mattina a Takayama si celebra il rito affascinante del mercato dei fiori, vigila un ometto di legno, dalle fattezze buffe e simpatiche. Basso, paffuto, con larghissimo sorriso e il nasone camuso, indossa abiti larghi e comodi, un cappello uguale. Nella mano destra stringe un martello. È Daikokuten, uno dei sette Fukujin, i “Lucky Gods” del pantheon scintoista. Garantisce la prosperità dei raccolti e dei commerci dell’intera città.
Sono loro che difendono e assistono Takayama nella stupenda battaglia che la città ha ingaggiato da decenni per resistere all’omologazione del cemento armato. Nel suo centro storico, con le sue case di elegantissimo legno di cipresso dove si alternano fabbriche di saké e salsa di soia, venditori di souvenir, di yakitori (gli spiedini giapponesi), e ogni genere di insegna riposano austere le antiche corazze e le armi più letali. Come l'hachiwari, un arpione da combattimento "usato per fracassare gli elmi" che è entrato persino nell'immaginario collettivo attraverso i videogiochi, con il longseller Mortal Kombat. Oppure come il kusarigama, una catena alle cui estremità c’era, da un lato, un peso e dall’altra una falce.
Era il giocattolo preferito dai ninja fino a che il grandissimo samurai Miyamoto Musashi ne ristabilì la dignità facendone una delle sue specialità, con cui impose il nome suo in tutto il Giappone antico.La tradizione, qui, non è (solo) un’attrazione per turisti. È una vocazione che non si tradisce.
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