Cultura e Spettacoli

La montagna incantata di Paul Cézanne

Grande retrospettiva che rievoca quella del 1907

«Io? Io sono un vecchio animale, e il mio metodo è l’amore per il lavoro». Lo vedevano passare, ad Aix, tutti i giorni, alla mattina e dopo pranzo. Lo vedevano passare la domenica, col vecchio pastrano tutto sporco di colore, per andare alla messa a Saint-Sauveur. Poi smise di andarci, semplicemente perché il «cretino di abate che suona l’organo» lo disgustava.
Paul Cézanne ha lottato, ha sfidato il padre, già cappellaio e poi primo banchiere di Aix-en Provence, ha tentato le mostre, ha fallito ma è andato avanti. Dipinge, dipinge sempre. Antagonista è lei, la sua pittura. Sdoppiata nell’immagine della montagna che gli sta di fronte, Sainte-Victoire. Paul Cézanne non ha più né rivali, né scopi. Soltanto quella montagna che appare tra le nubi, scompare tra le nubi, ferma come un’icona sacra ma irraggiungibile nella mobilità degli elementi. «Rifare Poussin sulla natura» era stato uno dei suoi motti. Poi «il cilindro, la sfera, voglio fare col colore il bianco e il nero».
Da figlio unico del banchiere che sognava di passargli agio e posizione, Cézanne studiò la pittura in modo irregolare. Faceva copie dall’antico, come tutti, cominciando dal Museo di Aix-en-Provence che oggi accoglie la grande retrospettiva che rievoca quella del 1907, subito dopo la morte (Aix-en-Provence, Musée Granet, fino al 17 settembre). Allora si aprì al Salon d’Automne di Parigi, a pochi mesi dalla morte. La visitarono tutti, da Picasso a Braque, da Dérain a Modigliani, e tutti ne rimasero colpiti. Il pittore e teorico d’arte Maurice Denis scrisse che non si poteva neppure tentare di spiegare a parole il significato di quell’apparizione. Dopo tanti anni di solitudine, dopo i decenni in cui Cézanne, apparentemente impressionista o post-impressionista, si era lanciato nell’avventura solitaria di ridare alla pittura il peso di una forma e di un simbolo, relegando i tentativi impressionisti di un tempo leggiadro e senza peso, riaffrontando da solo il confronto col passato, con l’arte dei maestri, con la storia.
Quella mostra fu un presagio, un segnale, un destino. Da lì si rimise in moto il carico avito e nobile del classicismo di tutte le epoche per giungere al nuovo secolo e dimostrare che nulla era perduto. Era finita l’epoca dei café, delle cocottes, dell’assenzio e dei balli. Cominciava un secolo che tornava a chiedere all’arte di schierarsi, prendere posizione ed essere, esserci.
Dunque il vecchio, come lo chiamava Rilke, prendeva su di sé l’onere del futuro, e giocava, col suo nome, anche il destino della pittura. Non avrebbe mai potuto immaginarlo, dato che solo un mese prima di morire confidava il dubbio di non riuscire a raggiungere lo scopo... E invece la sua natura, la sua dedizione, la sua costanza di monaco ribelle porsero un esempio da cui pochi riuscirono a scostarsi.
Il Novecento prese questo, da lui. Soffici, Picasso, Rilke. La fiducia estrema e sacra in un compito, il dovere di restituire alla natura in arte quel che la natura porgeva agli uomini. Nuvole, rocce, sassi, la montagna è semplicemente la sfida estrema. Che riepiloga tutta la vita di pittore e le restituisce. Senza cielo e senz’aria, costruita mattone dopo mattone come un fortino benedetto da un destino.
Questo fu quel che Cézanne porse alle avanguardie. L’ultima certezza che un fortino può resistere al tempo. In pittura almeno. Cézanne non sapeva niente di politica e durante la guerra franco-prussiana s’imboscò. Proprio sotto la montagna, vicino alla Sainte-Victorie.

Così salvò la pittura d’Europa, mentre l’Europa cominciava ad annegare.

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