La montagna come «patria» dello spirito

Non si può capire Carlo Sgorlon senza il mondo rurale delle valli e dei villaggi del Nord Est che, come scrisse, fu un termine «inventato» da lui per indicare il suo Friuli. Non una coordinata geografica, ma un luogo dell’anima, il centro del mondo, come è sempre stata la propria terra nelle culture contadine, fondate sulla sapienza popolare, sulle superstizioni e sui miti. Un centro che, però, viene celebrato nella consapevolezza che esso è ovunque. Che tutti, destinati all’effimero e alla precarietà della vita, anelano al radicamento in quel centro, fra la pulsione alla libertà girovaga, fragile e tremante, delle foglie, e quella alla stabilità rassicurante - ma anche soffocante - delle radici sotto terra. Come nella storia dello zingaro Sindel narrata nel romanzo Calderas. Un radicamento che non si può realizzare nel mondo urbanizzato, dove lo strato di cemento è più spesso. E non si tratta solo di una metafora.
Il baluardo di tutti i radicamenti possibili, guarda caso, nell’opera di Sgorlon è la montagna, con le sue valli e i suoi villaggi arroccati e sperduti, meno accessibili e appetibili, dunque meglio preservati dall’avanzata della modernità. Una montagna simile a quella delle colline moreniche dell’infanzia che Sgorlon trascorse con i nonni. Non quella degli alpinisti, in cui gli uomini non compaiono, in cui i villaggi sono sullo sfondo e dove, pure, la presenza dell’uomo è ingombrante perché essa è la montagna del superuomo, antropocentrica, da conquistare. La montagna di Sgorlon è l’opposto. È la montagna sacra. La montagna della semplicità, della sobrietà, dell’artigianato, dei modi diretti e senza fronzoli.
Il trono di legno (1973), L’ultima valle (1987), Lo stambecco bianco (2006), sono romanzi in cui, questa sacralità e densità simbolica della montagna emerge sempre. Una sacralità che si manifesta poi in tutta l’opera dello scrittore, nel linguaggio, nei costumi e nell’intelligenza, ovvero nel dialetto, nel rifiuto del superfluo e nella sapienza tramandata più che in quella acquisita sui libri. Perché nel dialetto, nella conservazione delle cose, nella conoscenza intuitiva, non tutto è controllato dal soggetto. Qualcosa ci precede e ci supera, viene da prima, dai padri, e passa ai figli. Viene dai cicli delle stagioni. Ed è sacro perché in esso siamo compresi. Un mondo che però batte in ritirata, di fronte all’assalto della cultura marxista e post marxista, della civiltà industriale e dei consumi, volti opposti della stessa medaglia. È quella medaglia ad aver sommerso i villaggi con gli invasi artificiali, per soddisfare il bisogno (indotto) di corrente elettrica e dare l’illusione di una felicità che, invece, si rivelerà effimera.

Così, se il finale tragico de L’ultima valle, in cui viene costruita una grande diga, potrebbe far pensare al caso, ormai lontano, di Longarone, in verità il monito di Sgorlon è ben più universale e ancora attualissimo.

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