Moore, l’Arena si tinge di blues

Un cavallo di razza che cavalca nei territori del blues più ruvido e violento incrociando le strade dell’hard rock; una chitarra infuocata capace di scatenati riff e brucianti assolo lenti e drammatici. In poche parole il ritratto di Gary Moore, classe 1952, irlandese di Belfast ma da sempre bandiera del rock britannico, che stasera porta la sua tecnica e il suo mondo artistico all’Arena per il Milano Jazzin’ Festival (ore 21, info: www.milanojazzinfestival,it).
Moore non è solo un apprezzato solista; i fan lo ricordano alla guida di band di culto come Skid Row (fondati a Dublino e da non confondere con gli omonimi Skid Row, band heavy metal americana nata a metà anni Ottanta) e Thin Lizzy. Inizia a suonare la chitarra affascinato dal rock di Elvis e dai Beatles, ma si trasforma in devoto seguace della musica del diavolo dopo l’ascolto dei Bluesbreakers di John Mayall (e in seguito di Jimi Hendrix). «Il rock di Elvis era qualcosa di nuovo e di giovane - dice Moore - ma il blues, quel suono così sofferto e fiero, mi ha sconvolto nel profondo dell’anima». Artista legato alla tradizione ma che guarda sempre avanti, già negli anni Sessanta Moore interpreta il vero blues ma al tempo stesso trasforma gli Skid Row - insieme al cantante ed amico Phil Lynott - in un gruppo sperimentale. «Cercavamo di mettere qualcosa di nostro nel blues per dimostrare di non copiare». E infatti il loro sound autarchico solletica la curiosità del guru (genio e sregolatezza) Peter Green che li vuole con sé per aprire gli spettacoli dei Fleetwood Mac e procura loro un contratto con la Cbs (la leggenda vuole che Green abbia venduto a Moore una Gibson Les Paul del 1959 per 100 sterline e che a sua volta Moore l’abbia rivenduta nel 2006, dopo averla usata come un oracolo, per quasi un milione e mezzo di sterline). Genio e sregolatezza (non come Green ma comunque in robuste dosi) fanno di Moore un talento emergente di forte personalità, che presto lascia gli Skid Row per il rock duro dei Thin Lizzy per poi buttarsi in una carriera solista di lungo corso partendo con l’accattivante singolo Parisienne Walkways. «Preferisco lavorare da solo, senza una vera band che mi vincola, ma amo confrontarmi con altri artisti: quella è la vera sfida». Così ha lavorato con grandi maestri come B.B.King, Albert King e Albert Collins, ha formato una band con Jack Bruce e Ginger Baker (ovvero i Cream con Moore al posto di Clapton), ha messo la sua sei corde al servizio di Ozzy Osbourne e di Mark Knopfler. Ha esplorato anche differenti territori, spaziando dal country e dalle radici celtiche al jazz, anche se i suoi album più importanti - dal fondamentale Still Got the Blues che lo proietta con successo negli anni Novanta a Back to the Blues che inaugura il nuovo millennio, da Power of the Blues al recente Bad For You Baby (con citazioni di Muddy Waters e J.B. Lenoir) - hanno quell’inconfondibile sapore blues che contraddistingue la sua cifra stilistica e lo fa amare da legioni di appassionati. «Il blues è come un’amante - sottolinea - con cui in alcuni momenti litighi ma che non potresti mai lasciare per nessuna ragione al mondo. È bello provare vari stili, plasmare il blues adattandolo al tuo gusto e all’attualità, ma non è possibile abbandonarlo».

Così come il pubblico non abbandona Gary Moore e la sua chitarra; una star di culto che gioca ancora oggi a fare il vagabondo, il ribelle, il fantasista della chitarra che regala tante buone vibrazioni rock blues stando lontano dalle luci dei riflettori e dalle sirene dei suoni commerciali.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica