Da Moroni al Berlusconi del ’94: quando i suoi "avvisi" erano letali

Da Moroni al Berlusconi del ’94: quando i suoi "avvisi" erano letali

Una spinta nel baratro. Due paginette, infilate nella canonica busta gialla, e tanti saluti. Addio alle armi. Carriera finita. Giù, senza paracadute. L’avviso di garanzia era, ai tempi del pm Antonio Di Pietro, il marchio di infamia che segnava la morte civile dell’indagato. Che, di solito, era costretto alle dimissioni. Incartate in belle parole di circostanza, ma inevitabili perché questo reclamava l’opinione pubblica. Oggi Di Pietro dice che «può capitare a tutti di essere sottoposto ad un giudizio della magistratura». Anche ad Enzo De Luca, il sindaco di Salerno scelto dal Pd e da Tonino come candidato governatore, anche se è sotto inchiesta per truffa e concussione. «Chi non ha nulla da temere - aggiunge il leader dell’Italia dei Valori parlando al congresso del suo partito - corre dal suo giudice e si affida a lui».

Certo, ma fra il ’92 e il ’94 l’avviso valeva più di una condanna della Cassazione. Non c’era partita, anche se l’eventuale processo era ancora di là da venire. Per l’opinione pubblica l’avvisato, di solito un parlamentare che non poteva essere arrestato, era un criminale che meritava le manette e il lancio canonico delle monetine e una buona razione di insulti.

Basta scorrere il calendario di quei mesi tempestosi. Il 10 febbraio ’93, Claudio Martelli viene raggiunto da un avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta: è la coda dello scandalo Ambrosiano a travolgerlo. Martelli è il Guardasigilli, ma si dimette in un amen. Non una ma tre volte: da ministro, da parlamentare, dal partito. Del resto, il Psi si sta sciogliendo come un gelato, un avviso di garanzia dopo l’altro. L’11 febbraio ’93, Bettino Craxi lascia la segreteria del Psi. Il motivo? Il 15 dicembre ha ricevuto il famoso avviso di garanzia per la Metropolitana milanese ed è sprofondato nelle sabbie mobili di Tangentopoli. Non si riprenderà più, riceverà grappoli di avvisi di garanzia, poi se ne andrà in Tunisia e la sua faccia diventerà il profilo di un latitante. Così fino alla morte.

Oggi non ricordiamo più la cronologia dell’inchiesta ma basta pescare qua e là per vedere l’effetto provocato dalle frecce scagliate da Di Pietro e dal Pool: il 25 febbraio ’93 Giorgio La Malfa viene colpito da un avviso di garanzia per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti e lascia precipitosamente la poltrona di segretario del Pri. Il 15 marzo, neanche un mese dopo, il rituale si ripete con il numero uno del Pli, Renato Altissimo. Che abbandona, «allibito». Il settimanale L’opinione attacca il Pool: un assalto a dir poco temerario, come quello della cavalleria polacca contro l’esercito tedesco.

I leader sono birilli che al primo colpo vanno giù senza fiatare e si ritirano nelle retrovie. Implorando un’improbabile riabilitazione. Avvisi di garanzia e manette. Fino al fuoco d’artificio più clamoroso nella storia di Mani pulite: il 21 novembre ’94 il Corriere della sera recapita a Silvio Berlusconi l’avviso per le tangenti alla Guardia di finanza. Berlusconi è il capo del governo, la comunicazione giudiziaria gli viene inviata nei giorni in cui è a Napoli a presiedere un summit mondiale. L’invito a comparire finisce in vetrina sotto gli occhi dei potenti di tutti i continenti. Il contraccolpo è fortissimo, e, nel giro di qualche settimana, il governo, minato anche dalla defezione della Lega, si accartoccia e passa la mano. Un avviso di garanzia ha spento le velleità riformatrici del primo Berlusconi. E ha ghigliottinato il verdetto popolare delle urne.

Giù il governo. E nel baratro anche le Camere. Il Parlamento nel ’94 è andato a casa perché avvisato da Di Pietro e dalle Procure di mezza Italia. È il Parlamento degli inquisiti e la valutazione delle prove resta sullo sfondo: non c’è tempo per riflettere e per separare il grano dal loglio. Innocenti e colpevoli sono falciati dall’inchiesta e poi il seguito non interessa più di tanto. La schiuma del giustizialismo travolge tutto e tutti. La prima Repubblica muore, la seconda rischia di essere uccisa nella culla. A fine ’94, Berlusconi prova a resistere, ma è impossibile. Di Pietro, al culmine della sua popolarità, dice ai colleghi del Pool: «Io a quello lo sfascio». Poi, taglia la corda e si dimette prima di interrogare il premier ormai disarcionato. Berlusconi lascia Palazzo Chigi e deve adattarsi a fare opposizione. Qualche anno dopo, il 19 ottobre 2001, verrà assolto in Cassazione dall’accusa di aver distribuito mazzette a generali e colonnelli, ma ormai il danno è fatto.

L’avviso di garanzia garantisce solo la gogna. L’esatto opposto di quel che è sulla carta. Il primo elimina il bersaglio dalla scena nazionale, il secondo talvolta dalla scena di questo mondo. Il 2 settembre ’92 il deputato socialista Sergio Moroni si suicida dopo aver ricevuto due avvisi. Nella lettera d’addio, parla di un «processo sommario e violento» di cambiamento della politica. È la «decimazione». E allora Moroni che non vuole piegarsi e non può resistere, decide di togliersi di mezzo, prende un fucile e si spara.


È il lato feroce della legge. Il colpo che manda al tappeto, nel disprezzo generale. Anche se più di una volta, a distanza di tanto tempo, si scoprirà che Di Pietro e gli altri arcieri del Pool hanno colpito il bersaglio sbagliato.

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