Guido Mattioni
Se ne è andata poco dopo le 22 del 30 dicembre scorso. Se ne è andata nel silenzio dolente in una stanza di ospedale, un pugno di ore prima che Roma venisse squassata dalleuforia fracassona dei botti. Se ne è andata precedendo di poco quel vecchio anno che aveva riaperto per due volte, fino a farla sanguinare, la ferita più antica e mai rimarginata della sua vita, quellorrenda strage del Circeo da cui lei era uscita viva - era il 29 settembre 1975 - sopravvivendo allamica Rosaria Lopez. Se ne è andata dopo che lo stesso crudele 2005 le aveva strappato, pochi mesi prima, con la condanna di un cancro, anche ladorata mamma Maria. Se ne è andata (perché a volte il destino si accanisce in modo quasi osceno, vien proprio voglia di dire, con una stessa persona o una stessa famiglia) fissando lo stillicidio della chemioterapia scenderle goccia dopo goccia in una vena. Inutilmente, però.
Di lei, Donatella Colasanti, morta a 47 anni per il fulmineo aggravamento della forma tumorale che laveva colpita da tempo, ieri le agenzie di stampa hanno messo in rete dozzine di fotografie dellepoca dei fatti. Anni in cui i drammi, sui giornali e in tv, si vivevano unicamente in quel bianco e nero che li scolpiva però nelle memorie con molta più incisività e dettaglio di quanto avrebbe potuto fare, in seguito, la frivola «dispersività» del colore. Così ieri, chi ha letà per ricordare, ha rivisto subito, già con la mente, quel volto di Donatella - straziato, pestato, gonfio, ma vivo - spuntare dal bagagliaio della 127 bianca parcheggiata a Roma, in via Pola. E accanto a lei, in quel loculo di lamiera, il corpo senza vita della povera Rosaria.
A lasciarle lì, come due pacchi di «cose usate», convinti che fossero morte entrambe, erano stati i loro tre aguzzini, tre odiose facce da schiaffi della cosiddetta Roma bene: Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, allepoca rispettivamente diciannovenne, ventenne e ventiduenne. Avevano chiuso lauto e se ne erano andati a mangiare, ridendo, in pizzeria. Come fosse un «dopo cinema» qualsiasi. Il vero film, un orrendo film, era iniziato invece nel tardo pomeriggio, in una villa del Circeo dove i tre avevano attirato le due amiche.
Sarà la stessa Donatella, con le labbra gonfie e spaccate, a ricostruire scena dopo scena, agli inquirenti, la sceneggiatura criminale scritta da quelle tre menti deviate e assassine. Prima lalcol, poi le botte e quindi lo stupro. Infine, dopo il tentativo di intontirle con due iniezioni di un liquido rosso, per gli aguzzini è il panico, la realizzazione che stavolta non lavrebbero «sfangata». A quel punto, «quelle due» dovevano morire. Izzo e Guido portano la Lopez al piano di sopra, dove la annegano nella vasca da bagno. Donatella, da sotto, sente le grida disperate dellamica, quindi un gorgoglio, infine il silenzio. Tocca a lei. La picchiano in testa con il calcio di una pistola, la trascinano nuda per la casa con un laccio che le hanno stretto al collo, la fanno quasi svenire prima che uno dei tre si lasci scappare: «Questa qui non vuol morire». E lei capisce: fingere è la sua unica salvezza. Lepilogo è quello già ricordato: i killer, avvolti i corpi in teli di plastica, li infilano nel bagagliaio dellutilitaria. Poi, come nulla fosse: «Cameriere, tre margherite!».
Donatella, salvata dalla polizia su segnalazione di una donna che ha sentito i suoi lamenti e i suoi pugni sferrati contro la lamiera della 127, già sullambulanza riesce a fare i nomi dei tre. Izzo e Guido vengono arrestati quella stessa notte. Insieme a Ghira, riuscito però a fuggire e rimasto latitante fino alla sua morte, sono condannati allergastolo.
Ma mostri e incubi, nellanno appena concluso, ritornano per due volte a tormentare la vita sfortunata di Donatella. Il 30 aprile sotto forma di un duplice omicidio, scoperto vicino a Campobasso con il ritrovamento dei corpi di madre e figlia, Maria Carmela Limucciano e Valentina Maiorano, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, esponete della Sacra Corona Unita. Un boss divenuto amico in carcere, a Palermo, di Izzo. E quando un giudice ha la felice idea di concedergli un permesso premio, Izzo va a casa delle due donne e le uccide.
Lincubo, anzi il fantasma, spunta invece il 29 ottobre, con le fattezze di Andrea Ghira. La polizia, che è da tempo sulle sue tracce, scopre che il caporalmaggiore Massimo Testa, falsa identità sotto cui si nascondeva lassassino, è in realtà morto per overdose undici anni prima in Spagna, dove è sepolto nel cimitero dellenclave di Melilla.
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