nostro inviato allAquila
«Sono andato io, con la mamma. Sa, cè questo rito del riconoscimento
Daniela, mia sorella, era adagiata in una bara di legno chiaro. Accanto a lei i corpi dei suoi figli: Davide, che aveva 12 anni, e Matteo, che di anni ne aveva 9. I volti gonfi, nerastri, feriti, impolverati. Mia sorella con una faccia arrabbiata. Matteo con i capelli dritti, dritti in modo innaturale. La mattina di lunedì, quando scavando trovai il corpo di mia sorella abbracciato ai ragazzi, mi venne tra le mani il suo abito da sposa. Adesso lo so che sembra un po retorico dirlo. Ma io penso che in qualche modo sia stata lei, a guidarmi verso quel vestito. Come se mi chiedesse di farglielo indossare per lultima volta. Così oggi ce lo siamo portato dietro, io e la mamma, e glielo abbiamo adagiato sul corpo. Ecco, labbiamo vestita da sposa per il suo ultimo viaggio».
Un obitorio di fortuna, di quelli per grandi numeri, come se ne vedevano in Bosnia Erzegovina, ai tempi della guerra con la Serbia di Milosevic. Dico la Bosnia perché anche qui, come a Tuzla, a Srebrenica, a Mostar, si vedono le stesse facce di anziane contadine, le asole delle loro giacchette di lana slabbrate, il volto stretto da un fazzolettone nero. Con questa differenza: lì piangevano, si disperavano, si graffiavano il viso rovesciando gli occhi allindietro, come prevede il copione balcanico-mediterraneo. Qui - eppure è Abruzzo, Italia - sembra di essere in una specie di Germania dei sentimenti. Fierezza, compostezza, i singhiozzi trattenuti, o sfogati in un fazzolettino bianco ridotto a una palla di pezza, premuto con forza sulle labbra. Anche i friulani di Gemona e Venzone, con tutto il rispetto
Fino allaltro ieri, questo obitorio di fortuna era il parco automezzi della Scuola ispettori e sovrintendenti della Guardia di Finanza, caserma V. Giudice. Nec recisa recedit, «neanche spezzata retrocede», recita a caratteri cubitali il motto del Corpo, stampato sulla palazzina che accoglie i visitatori appena al di là della porta carraia. Lo coniò DAnnunzio, il poeta soldato, correva il 1933. Sembrava non dovesse venire mai buono quel motto magniloquente, un po enfatico, un po teatrale. Viene buono oggi, per questo centinaio di persone che presidiano il grande piazzale davanti allobitorio. Vecchi e giovani seduti su certe sedie di plastica bianca, in circolo, a gruppi familiari, sotto il sole che batte deciso dal mattino. Tre o quattro ombrelloni, e la tettoia della pompa di benzina. Altro riparo non cè. Ma fa niente, nessuno si lamenta. Stanno lì, in silenzio, o parlano sottovoce, stringendo tra le mani una bottiglietta dacqua minerale della Protezione civile. Ogni tanto a una mamma, a un fratello viene in mente un pezzo di vita passato insieme a chi ora è chiuso in una bara, quarantaquattresimo della fila, e le guance gli si rigano di lacrime. Qualcuno appoggia la fronte sulla spalla del vicino, ed è tutto. In pugno tengono un numeretto, di quelli che si prendono al supermercato quando fai la fila. Sulluscio dellobitorio ci sono dei giovani finanzieri. Sulla bocca hanno mascherine da chirurghi. Quando chiamano il tuo numero vai, ti scortano vicino a una bara, o aprono uno di quei sacchi di gomma verde, come se ne vedono nei telefilm americani. Tu dici: sì, è lui, sì è lei. Se vuoi potrai avere un anello, la catenina che il tuo morto o la tua morta indossavano.
Non è facile, per chi viene da Onna, trovare la caserma della Finanza. «A destra, poi dritto per un po. Poi, dopo la rotonda
Ah, condoglianze
»,mi aveva gridato dietro un ragazzo al quale avevo chiesto al volo uninformazione stradale. Condoglianze accettate, mi sono detto guardandolo nel retrovisore. Oggi vien naturale dolersi insieme a tutti gli altri che son qui intorno, i sopravvissuti.
Pierpaolo Visione, 38 anni, commercialista, volto massiccio da giocatore di rugby, ma buono, è qui allobitorio con la mamma Linda e il padre Remo, ex funzionario della Corte dei conti. Daniela, sorella di Pierpaolo, era direttrice della sezione aquilana del ministero del Lavoro. «Si è salvato solo mio cognato, Massimo Cinque. Fa il pediatra. La notte del terremoto era di turno, a Sulmona
», racconta Pierpaolo, indicandomi la madre di Massimo, anche lei oggi qui.
Daniela e i suoi ragazzi erano nel loro appartamento al quarto piano di quel palazzone che stava in piazzale Paoli. Una vergogna di fabbricato venuto giù come un mucchio di fango secco.
Dopo la scossa devastante delle 3 e mezzo di lunedì, Pierpaolo Visione esce di casa come una furia. «Nei giorni precedenti cerano state una serie di avvisaglie. Scosse sempre più forti. Così, soprattutto quando non cera suo marito, mia sorella aveva preso labitudine di andare a dormire con i figli da mio padre, che abita verso porta Napoli. È lì che mi dirigo. Vedo mio padre per strada, e prima ancora il suo consuocero. Adriana? Da me? No! grida mio padre. Allora corro verso piazzale Paoli. Nel buio vedo la silhouette del palazzo, ma sbaglio. È quello che viene dopo. Il palazzo di mia sorella non cè più. Si cammina dentro una nuvola di polvere, come a New York dopo l11 settembre. Mi metto a scavare, ci sono due ragazzi macedoni che danno una mano, arrivano altri due con una piccozza e lelmetto. Grido il nome di mia sorella. Grido e grido. Sento una risposta: Eccomi, aiuto, aiuto. È una voce di donna, ma non so se era la sua. Poi più nulla. Tiriamo fuori un ragazzo in mutande, bianco di calcinacci come uno zombie. Ci vorrebbe una gru. Ma la gru arriva solo alle 10.30 del mattino».
Poi, dalle macerie, eccoli. Mamma Daniela sul lettone, i suoi due cuccioli accanto, la mano di lei protesa, come a proteggerli. E quellabito da sposa, perfetto, senza uno strappo.
Ora Pierpaolo è arrabbiato. Ce lha con i «fighetti» della Protezione civile, «una nicchia di potere, un baronato», che vanno in giro con le loro «gippette lustre» e «avrebbero fatto meglio ad allestire una tendopoli, quando han visto che lo sciame sismico si faceva serio, per chi non se la sentiva di stare a casa propria.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.