È morta ieri Di origini ungheresi, scrisse sempre in francese

Con lei era inutile protestare. In un’intervista di due, tre ore era in grado di affermare tutto e il contrario di tutto. Ma lo faceva con una tale fermezza che dopo la prima replica andata a vuoto chiunque avrebbe capito che Agota Kristof andava soltanto ascoltata. Nata nel 1935 a Csikvand, un paesino ungherese privo di stazione, elettricità, acqua corrente, telefono, con una sola strada, nessun marciapiede, fango dappertutto e immensi campi di mais e grano tutto attorno, in cui Agota imparò a leggere a quattro anni, si è spenta ieri notte nella sua casa di Neuchatel, nella Svizzera che l’aveva adottata dopo che, a ventun anni, sposata da due e con una bambina di quattro mesi, attraversò nel ’56 il confine tra Ungheria e Austria in una sera di novembre, con l’aiuto del passatore Joseph, suo amico d’infanzia e primo amore.
Il marito portava la bambina. Lei due borse con biberon, pannolini e dizionari. Lasciava in Ungheria il diario e le prime poesie, i fratelli e i genitori senza avvisarli. Lasciava Koszeg, la «Piccola Città» in cui si trasferì quando aveva nove anni, descritta nella «Trilogia della città di K», sotto cui sono raccolti i suoi primi tre romanzi: Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna. A Koszeg, città di frontiera in cui almeno un quarto della popolazione parlava un dialetto tedesco, una lingua nemica, apprese che la parola può essere ostile: «Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parola che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?». È ancora piccola, ma è il momento in cui inizia a scrivere: a dieci anni ha un’ortografia perfetta, sbriga i compiti in un quarto d’ora durante la ricreazione. La prima volta che consegna un tema al professore di letteratura ungherese ha paura. È troppo corto. Ma il professore apprezza. «È così che dovete imparare a scrivere. È breve, conciso, essenziale». E così saranno tutti i suoi scritti: L’analfabeta e La vendetta (Casagrande, che su di lei ha girato anche un dvd rivelatore: Continente K), nove pièce teatrali e poi la «Trilogia» - da cui il regista Janos Szasz sta girando un film - e Ieri (Einaudi), il suo romanzo più autobiografico, da cui Silvio Soldini nel 2002 ha tratto Brucio nel vento, film di cui Agota mi disse: «Ci ha messo l’happy end. Non ha voluto ascoltarmi. Non è con i finali ottimisti che si risolvono le cose».
Nel 2005, il giorno dopo essere uscita dall’ospedale per l’ennesima volta, già anziana, con le cicatrici di operazioni alle gambe e alla pancia, la motilità ridotta, la tosse che interrompeva la voce secca, mi raccontò di quando scriveva poesie in fabbrica. Perché la fabbrica, per le poesie, va benissimo: «Si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi». E di quando capì che non avrebbe mai scritto storie d’amore. Perché «le donne di solito scrivono d’amore. O di matrimonio, divorzio, sentimenti. Banale».

E di una voglia segreta: «Forse mi piacerebbe scrivere policier. Ma non conosco i tribunali, la polizia. Mio fratello, che fa anche lui lo scrittore, scrive gialli. Ne ha scritto uno sul terrorismo, ambientato nel 2015. L’ho letto due volte».

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