
Sono passati cinquant'anni dall'uccisione di Sergio Ramelli, e trentacinque dalla condanna dei suoi assassini. «Il processo Ramelli - racconta Gaetano Pecorella - per me fu l'ultimo processo di quel tipo. Facevo parte di un gruppo di cinque avvocati - con Marco Janni, Michele Pepe, Luca Boneschi e Luigi Mariani - che aveva sempre assistito i militanti della sinistra extraparlamentare finiti sotto inchiesta. Ma dopo il processo Ramelli scrivemmo una lettera pubblica dicendo che era arrivato il momento di dire basta».
Perché?
«Perché dagli scontri di piazza si era passati alla violenza cieca e gratuita. Erano gli anni della chiave inglese, e furono anni terribili, una escalation in cui alla fine si era perso il lume della ragione».
Pecorella era un brillante docente universitario quando entrò a fare parte del collegio difensivo dei militanti di Avanguardia Operaia accusati dal giudice istruttore Guido Salvini dell'omicidio del militante del Fronte della Gioventù Sergio Ramelli. Alle spalle, aveva già molti anni come difensore degli imputati del Movimento studentesco, di cui anche lui aveva fatto parte. «A volte li assistevo come imputati, a volte come parte civile quando erano loro a venire aggrediti. Non era una situazione facile. Mi trovai anche a difendere i leader dell'Ms accusati di avere sequestrato il rettore della Statale, Giuseppe Schiavinato, quando ero già assistente universitario, e quindi dipendevo dalla vittima. Debbo dire però che la mia carriera accademica non ne risentì».
«Noi - ricorda Pecorella - fornivamo ai militanti dell'ultrasinistra assistenza legale, e avremmo continuato a farlo se la situazione non fosse degenerata tragicamente. L'uccisione di Ramelli fu il segnale più netto che si era perso il lume della ragione. Ramelli era un ragazzo che non aveva mai fatto del male a nessuno, e venne colpito solo perché considerato un nemico, un simbolo da distruggere fisicamente. Purtroppo non fu un caso isolato. Un mese dopo la morte di Ramelli venne ucciso in piazza San Babila da un gruppo di neofascisti uno studente lavoratore, Alberto Brasili, che aveva l'unica colpa di indossare un eskimo e di essere per questo additato come rosso. Questa era la Milano di quegli anni, si veniva aggrediti persino per come si andava in giro vestiti».
Nel processo per l'omicidio Ramelli lei si trovò a difendere degli studenti divenuti intanto medici, professionisti di buona cultura, quasi tutti di estrazione borghese. Si spiegò come fosse possibile che il fanatismo ideologico li avesse trasformati in assassini di un ragazzo?
«Io credo che alla deriva violenta, all'impazzimento collettivo, abbia contribuito anche l'incapacità della politica ai livelli più alti di dare risposte concrete a quanto stava accadendo, a trovare un dialogo dove le rispettive ragioni potessero confrontarsi anche dal punto di vista culturale. Questo non accadde, e la conseguenza fu l'inasprimento progressivo dello scontro. Si creò un clima di odio di cui Ramelli fu vittima innocente. Venne aggredito senza nessuna motivazione che non fossero le sue idee».
Molti anni dopo si è ritrovato in Parlamento nello stesso schieramento di Ignazio La Russa, che invece in quel processo difendeva la famiglia Ramelli.
«Ricordo che quando nel 1998 Forza Italia avanzò la proposta della mia candidatura a Milano, il Movimento Sociale - Fiamma Tricolore Alleanza Nazionale disse che era una proposta
scandalosa, e che ero un nome inaccettabile proprio perché aveva difeso gli imputati dell'aggressione a Sergio Ramelli. Fu La Russa a intervenire dicendo che io avevo solo fatto il mio lavoro, come lui aveva fatto il suo».
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