"La morte è un tunnel. E io vi scrivo da lì"

Affetta da sclerosi laterale, Cesarina Vighy ha esordito a settant’anni con L’ultima estate, un romanzo fortemente autobiografico. "Per me la letteratura è una Second Life. Una cura per l’anima"

"La morte è un tunnel. E io vi scrivo da lì"

Da qualche parte, sul foglietto delle Istruzioni, c’è scritto ben chiaro che dovremo un giorno avere coraggio. Qualcuno il foglietto lo nasconde, altri lo distruggono, altri ancora lo imparano a memoria e non fanno che ripeterlo a chi tende a dimenticarlo. Cesarina Vighy l’ha conservato a lungo, quel foglietto, e a settant’anni, dopo aver dedicato una vita ai libri e alla letteratura, dopo aver scoperto di avere la Sla e dopo aver deciso di curarsi, lo ha tirato fuori per farne la prima pagina del suo romanzo d’esordio, L’ultima estate (Fazi, pagg. 190, euro 18).

La Vighy definisce il romanzo il «ripasso» di una vita, la sua. La protagonista, Zeta, è malata come Cesarina, il mondo in cui può spaziare il suo sguardo si è ridotto alle cose vicinissime al letto: la gatta, gli uccelli che fanno il nido, le medicine, i sogni. Con i sogni, i ricordi: l’infanzia, gli amori, la guerra, la psicanalisi, il femminismo. E se i ricordi di Zeta sono battaglieri, il presente, incredibile dictu, lo è anche di più.

Il libro è piaciuto, molto. Ha già vinto il Campiello Opera Prima, è nella cinquina per lo Strega, i media ne hanno scritto un gran bene. Questo è importante, certo. Ma ancora più importante, ci pare, è quel che il libro ha fatto a Cesarina. Ci dicono che le sembra di star meglio, a tratti. Che il sentirsi parte di un avvenimento in corso le dà energie che credeva perdute per sempre. «Il confine si sposta continuamente», dice e nel ringraziare per il Campiello scrive: «Mi fa sorridere di tenerezza, mi ringiovanisce e insieme mi appare come una bella vittoria sull’età e la malattia. Ringiovanendo, mi sento quindi autorizzata e stimolata a continuare». Insomma, è come se la vita fosse venuta a prenderla.

Signora Vighy, com’è la vita, vista da lì?
«Ho un mio metodo, che funziona, per guardare alla vita “da qui”. Ha presente Second Life? Bene. Ho pensato che non è necessario che il proprio avatar somigli ad Angelina Jolie, un inno alla salute, alla bellezza e alla felicità: può rappresentarsi anche come una vecchia signora malata ma saggia, che non desidera quasi più niente».

Per disperazione?
«Perché conosce la vanità di ogni desiderio esaudito. Dietro il quale - come in una fuga di specchi - ce n’è un altro e poi un altro e poi un altro. Per questo, quando mi viene qualche rimpianto (essere stata in un giardino siciliano a respirare il profumo di zagare, riascoltare il rumore del mare) lo fermo subito ricordandogli che siamo in Second Life».

E com’è la morte, vista da lì?
«È stata sentita da ragazzi inesistente, impossibile (“io non morirò”), da adulti come oggetto di filosofie e, talvolta, di curiosità (“cosa sarà? Come sarà la mia?”). Quando si avvicina l’ora ineludibile, per malattia o per età, acquista tutta la sua realtà un po’ sordida: è la bocca di un tunnel che s’ingrandisce sempre più, secondo la velocità del treno su cui viaggiamo».

Per chi ha scritto questo libro?
«Mentre scrivo, lo faccio soprattutto per me, senza pensare agli eventuali lettori. Soltanto dopo, quando cominciano ad arrivarmi le loro lettere, mi rendo conto di non essere sola e sento anche la responsabilità delle mie parole. Con L’ultima estate mi pare di esser stata fortunata perché i miei corrispondenti, giovani e meno giovani, donne e uomini, mi ringraziano per aver fatto rivivere un’adolescenza simile alla loro o, se malati, per avergli comunicato forza e persino buonumore».

Li immagina mentre leggono?
«Li immagino soprattutto a letto (la mia posizione di lettura preferita) ma anche in treno, in metropolitana, in tram. Come quel lettore che mi ha scritto - bontà sua - di aver così rinnovato l’impresa compiuta quarant’anni fa con l’Ulisse di Joyce ricavandone, per il peso, un gran dolore ai polsi, cosa che almeno non può essergli successa col mio volume, data la sua piccola mole».

Lei crede?
«No, non “credo”. E con me Z. che è la mia controfigura. Non “credere” non significa però non credere in nulla. Educata da mio padre, socialista all’antica stretto tra la fede dell’uomo nell’uomo e un pessimismo di fondo, anch’io conosco la delusione che proviene, specialmente oggi, dalla prima».

Nel libro racconta il trascorrere del tempo sul suo corpo, i mutamenti fisici anche minimi, il senso del decadimento. Dice di essere riuscita a razionalizzare quasi tutto, tranne il fatto che vorrebbe conservare qui quel corpo. È così?
«Da me i mutamenti fisici intervenuti e che interverranno sono vissuti come una grande umiliazione. Lenin li chiamava brutalmente “il tradimento della carcassa”. Ma Lenin, quando credeva di dare gli ultimi ordini, aveva già il cervello perso nella nebbia. Penso che quest’organo, se integro, sia noi e sia il vero segnale della vita in una persona».

Anche nella malattia?
«Nella mia malattia pare che esso rimanga tale sino alla fine e, disgrazia o fortuna, resti quasi l’unico legame della scintilla, misteriosa ma non divina, che ci fa vivere e ci fa diversi, col corpo. Perché allora si tende a conservare questo ormai privo di quella? Per amore, per materialismo, perché in natura nulla si crea e nulla si distrugge?».

Qual è ora la sua più grande consolazione?
«Le consolazioni possibili per me in ordine decrescente: la mia individualità in cui consiste il mio essere e il mio esistere; la scrittura che mi dà la prova di loro; gli affetti, senza i quali sarei una povera cosa arida; i libri (belli) e la letteratura da cui ho tratto il miglior nutrimento. I ricordi, no. Pochi sono dolci, molti amari. Ricordare per poi dimenticare è meglio».

Esordire a settant’anni: motivi, attese, impressioni?
«Vecchiaia e malattia, fra gli infiniti mali, portano anche qualche vantaggio. Niente timidezze, più libertà, quasi assoluta indifferenza per “quello che dirà la gente”. La sensazione di non aver più niente da perdere è in qualche modo inebriante. Aggiungi il bisogno di esprimersi nell’unico modo concesso che coincide poi con l’unico modo in cui sappiamo farlo, la necessità di lasciare una traccia - per quanto debole - del nostro passaggio sulla terra... ».

Le è capitato, in questa fase della vita, di essere nella lista dorata dei due più importanti premi letterari italiani: è nella cinquina per lo Strega e ha vinto il Campiello Opera Prima. Come sono i premi visti da lì?
«Non pensavo che i premi letterari fossero così. Li vedevo come cerimonie mondane che mal celavano giochi di potere e interessi editoriali. C’è anche questo, naturalmente, ma gli autori vengono a poco a poco affascinati, coinvolti. Spero solo che la mia calma zen, conquistata con tanta fatica, non si dissolva nell’affanno un po’ volgare della competizione».

Alla fine del libro, lei dice di tenere nel cassetto un pezzetto di dubbio. Avrà veramente il coraggio, quando sarà venuto il momento, di tirare fuori da sotto il cuscino lo scritto in cui rifiuta le cure?
«Idee chiare, sentimenti confusi.

Laica come sono, non ho mai visto nel primo progetto di legge sul testamento biologico (quello della Commissione presieduta dal senatore e medico Ignazio Marino, per intendersi) nient’altro che il giusto riconoscimento dell’autodeterminazione sulla propria fine. Per chi voglia avvalersene, è chiaro, quando si superi il limite di manipolazione del corpo attraverso macchinari invasivi, ivi comprese la nutrizione e l’idratazione forzate».

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