«Per la morte a Venezia offro la bara di cartone»

A ccompagnare è sempre stato il suo mestiere. Era guida turistica, conosce il veneto meglio dell’italiano e parla fluentemente inglese, francese, tedesco e spagnolo, insomma sei lingue. Per quasi metà della sua vita ha portato i visitatori stranieri in giro per Venezia. Ma, da 31 anni a questa parte, Renato Savoldello, discendente dalla famiglia Savoldello dei Savoldelli annoverata fin dal 1423 negli archivi della Biblioteca Marciana, s’è specializzato nell’organizzare un unico giro in gondola - solo andata, niente ritorno - sul braccio di mare, appena 412 metri, che separa il ponte dei Mendicanti dall’isola di San Michele. È qui che hanno fissato la loro dimora definitiva i poeti Ezra Pound e Josif Brodskij; i musicisti Igor Stravinskij, Ermanno Wolf-Ferrari e Luigi Nono; lo scrittore Frederick Rolfe, meglio noto come Baron Corvo; il commediografo Giacinto Gallina; l’attore Cesco Baseggio; l’impresario teatrale Sergej Djagilev, fondatore dei Balletti russi; il pittore Emilio Vedova; il matematico Christian Doppler; l’ambasciatore inglese sir Ashley Clarke; l’allenatore Helenio Herrera. Tutti in posizione orizzontale. Tutti morti. Manca all’appello solo Zorba il greco, alias Anthony Quinn, che s’era comprato una tomba con vista sulla laguna veneta e invece è finito nella cripta di famiglia a Bristol, negli Stati Uniti.
Niente di strano, un Caronte che ti traghetti sull’altra riva è sempre servito e sempre servirà. Solo che Savoldello, titolare col socio Giorgio Morucchio dell’impresa di pompe funebri Pagliarin, la più antica di Venezia, è il primo in Italia a farti compiere l’ultimo viaggio dentro una scatola di cartone, una bara biodegradabile al 100 per cento, chiusa da collante a nastro, con maniglie, piedini e persino il crocifisso ottonato in Mater-Bi, lo stesso materiale usato per i sacchetti dei rifiuti umidi, che nel giro di 40 giorni si trasforma in acqua, anidride carbonica e metano. Per chi non desidera neppure gli orpelli esterni, la foto del crocifisso o l’immagine della Madonna vengono impressi direttamente in quadricromia sul coperchio mediante stampa flessografica.
L’impresa Pagliarin ha sede nel sestiere di Cannaregio. Il Rio dei Mendicanti la separa dall’ospedale dei Santi Giovanni e Paolo, il che la include di diritto fra le aziende a chilometro zero. Fu fondata nel 1849, vent’anni dopo quella domenica 8 novembre in cui i pochi frati francescani sopravvissuti alla persecuzione napoleonica ripresero possesso del convento di San Michele in Isola, intonando un solenne Te Deum fra i sepolcri e poi imbandendo un pranzo «di tutto magro per essere in tempo del nostro Avvento», cui parteciparono il patriarca, le autorità municipali «ed altri soggetti di riguardo ascendenti al N. di 60», come registrò lo scrupoloso cronista dell’epoca, giacché è noto che chi muore giace e chi vive si dà pace, preferibilmente a tavola. Vallo a spiegare, ai commensali, che appena sette anni prima, il 21 febbraio 1822, fra quelle stesse mura il patriota Silvio Pellico, prigioniero degli austriaci a pane e acqua, aveva dovuto sopportare la sentenza di condanna al carcere duro dello Spielberg.
Nell’ufficio in calle larga Giacinto Gallina le uniche forme di vita, a parte chi vi lavora e chi è costretto dal destino a sostarvi dolente in posizione provvisoriamente eretta, sono rappresentate da due pesci neri d’origine vietnamita che nuotano nell’acquario («non lasciano vivere nessun altro», informa il titolare), inseguiti e attaccati da un ciclide più piccolo e più cattivo di loro, il che spiega perché nei mesi scorsi fossero cinque. «Oggi mi vede vestito di bianco, che nella tradizione cinese e indiana è per eccellenza il colore del lutto, ma di solito indosso abiti scuri. Anzi, meglio: grigio cenere». Cravatta, pochette e righette della camicia sono comunque viola e, a dispetto dell’ilarità goldoniana, Savoldello, 65 anni, confessa che sì, tutti i funerali sono uguali, «ha presente ’A livella di Totò?», ma poi «ti capita di fare il funerale a un bambino, al ragazzo morto in un incidente stradale, all’amico, a quello che conoscevi e allora cerchi di concentrarti su altro, sui fiori, sugli orari da rispettare, sull’attracco della barca, sul banchetto con i santini, e resisti, resisti, però alla fine il groppo alla gola vince sempre».
Grosso problema, per chi fa un mestiere come il suo.
«Non me ne parli. E il mio primogenito, Davide, che ha 42 anni e lavora con me insieme col fratello minore Andrea, soffre ancora di più. Agli inizi, ogni volta che doveva chiudere una bara, si metteva a piangere. Troppo sensibile. Mi chiedeva: “Papà, ma i morti dove vanno? Cosa fanno? Ci vedono? Ci sentono?”. Fui costretto a dargli un’aspettativa retribuita».
Addirittura.
«È prevista dal contratto della categoria per chi manifesta eccessiva emotività: lacrime, incubi di notte, disagi, tristezza, depressione. Rimase a casa per due mesi. Ieri è stato qui dalle 7 di mattina alle 8 di sera. Il nostro lavoro è così: disponibili per tutto e per tutti. Vietato arrabbiarsi. Tanto, che cosa cambia? Giorno più, giorno meno, siamo solo di passaggio».
Dai turisti ai morti è un bel salto.
«Basilio Pagliarin non aveva eredi. Stava per chiudere l’impresa fondata dal bisnonno mobiliere, che era passato dalle credenze alle bare. Ne discussi per due giorni con mia moglie Gabriella e alla fine mi decisi a rilevare l’azienda».
Come le è venuto in mente di seppellire i defunti dentro un involucro di cartone?
«Di cellulosa in tripla onda, prego. Un impasto di carta pressata, tessuto e legno riciclati».
Tutto quello che vuole, però...
«Sono un ecologista vero. In Italia ci sono 15.384 cimiteri. In un anno si registrano 550.000 decessi, che si concludono con 310.000 tumulazioni nei loculi, 190.000 inumazioni a terra e 50.000 cremazioni. Per provvedere alla sepoltura di questo esercito di defunti servono almeno 500.000 quintali di legname tagliato e lavorato, in prevalenza larice, un albero che impiega 15 anni per raggiungere 40 metri di altezza. Ma con un larice si realizzano non più di 20 bare. Calcolato in 15 anni il ciclo vitale della pianta, significa una superficie boschiva di 750 chilometri quadrati, quasi il doppio del territorio del Comune di Venezia. Per le casse di zinco si sprecano ogni anno 6.000 tonnellate di questo metallo. E i 310.000 loculi corrispondono a un volume di 700.000 metri cubi, pari a circa 2.500 appartamenti».
La bara di cartone quando si usa?
«Serve solo per la sepoltura nella nuda terra o per la cremazione. In quest’ultimo caso niente esalazioni di vernici e solventi, fumi irrilevanti, meno massa da bruciare e quindi meno spreco di metano. A 1.200 gradi un defunto di corporatura media chiuso nella bara tradizionale di larice o di abete diventa cenere dopo circa un’ora e mezzo, nella bara ecologica in 40 minuti».
Perché meno massa da bruciare?
«Perché la bara pesa appena 17 chili. Ciò che a norma di legge la rende idonea solo per defunti che non superino il quintale».
Ahi! Io sono fuori.
«Ma guardi che è molto resistente. Mio figlio pesa più di 100 chili e ci si è seduto sopra».
E se piove?
«Sicurissima. È stata testata per ore e ore con scrosci d’acqua, umidità, agenti atmosferici d’ogni tipo».
E se vi scivola nel Canal Grande?
«Impossibile. Tutt’al più questo era un rischio che si correva quando non esisteva l’alzaferetri meccanico. E infatti per il trasbordo del cofano il regolamento comunale imponeva la presenza di ben sei necrofori».
Le bare tradizionali di che cosa sono fatte?
«Abete, larice, frassino, mogano. Le più pregiate di noce e di radica».
Prezzo al pubblico?
«Dai 600 ai 1.400 euro. Ma c’è anche la bara di ciliegio grezzo, la più semplice, quella artigianale che ha voluto Papa Wojtyla, per capirci: quattro assi con gli incastri a coda di rondine».
E quella ecologica quanto costa?
«Viene 600 euro».
Non è regalata.
«Per ora il costo resta elevato perché c’è poca richiesta. Molti Comuni non ne autorizzano l’uso. Che io sappia, siamo stati i primi e gli unici ad adottarla in Italia. So che l’hanno sperimentata alcune imprese di pompe funebri in Svezia e in Gran Bretagna. Via Internet ricevo richieste da tutta Italia e anche da Giappone e Stati Uniti».
Si prenotano?
«Vogliono sapere. Non è che uno possa scrivere o telefonare dopo che è morto».
Eterno fascino della Morte a Venezia di Thomas Mann. Tutta un’altra morte.
«Chi muore a Venezia ha diritto a essere sepolto qui. Basta presentare una richiesta al gabinetto del sindaco. Sei mesi fa m’è capitato con un turista americano, un pensionato del Massachusetts. La moglie voleva risparmiare le spese per il trasporto aereo della bara».
Resta comunque preferibile l’ultimo viaggio in gondola.
«Un tempo c’erano sei classi di servizio, da due a cinque gondolieri, il servo d’onore, la barchetta per il prete. Più la classe di gran lusso e la prima classe oro per i bambini, con la gondola dorata. Quando morivano i nobili, che avevano tutti la góndoa de casada, gli altri gondolieri facevano a gara per mettersi a disposizione gratuitamente. Perché a Venezia le famiglie patrizie erano, e sono tuttora, benvolute».
Ma Venezia, per restare in tema, sta morendo.
«Sì, è una città di vecchi, piena di case vuote e decrepite, dove restaurare un alloggio non è alla portata delle tasche di nessuno. E del resto che cosa offre ai giovani? Nella città del Festival del cinema, guardi che paradosso, è rimasta una sola sala di proiezione, il Giorgione. I piccoli dettaglianti sono stati soffocati da quattro supermercati Coop. E dire che sarebbe un’oasi tranquilla, immune dalla delinquenza».
Il turismo funerario potrebbe diventare il prossimo business.
«C’è chi muore in hotel, nel qual caso andiamo a prelevare la salma dopo le 23, per non impressionare gli altri clienti. E chi muore girando per calli e campielli. Xe un tour de force, 5 ore per chi arriva in aereo, 4 per chi scende dalla nave, li fanno correre come matti, e cori de qua, cori de là, cori de su, cori de zo, col caldo, schiattano».
Un bell’imballaggio e via verso l’eternità.
«In tre giorni, quanti ne devono passare dal momento del decesso alla sepoltura, siamo in grado di personalizzare la bara ecologica. C’è chi ci ha chiesto l’effigie di padre Pio, chi i girasoli di Van Gogh. Possiamo stamparci sopra anche la foto del defunto, o di un divo, o i colori della squadra del cuore. Alcuni vogliono l’immagine dell’erba sul cofano e delle nuvole sul coperchio».
«Tra la terra e il cielo», lo slogan dell’assessorato al turismo della Regione Veneto.
«Vuol mettere il fascino della dispersione delle ceneri nel Giardino del ricordo sull’isola di San Michele? Oppure la facciamo in mare con una barca d’altura, a 700 metri da San Nicolò del Lido o dal faro di Punta Sabbioni. L’urna è in mais biodegradabile: appena finisce in acqua due tappini laterali lasciano filtrare l’aria e così affonda, sciogliendosi».
Chi le ha insegnato il mestiere?
«Sono autodidatta».
Come ha vinto il ribrezzo della prima volta?
«Mai provato. Per la morte bisogna avere solo rispetto, e anche paura».
Dai parenti le giungono richieste strane?
«Mi chiedono di mettere nelle tasche del defunto lettere, fotografie, qualcuno persino il pettine. Altri vogliono che gli distenda un fazzoletto sul viso o due monetine sugli occhi, il pedaggio che secondo la mitologia era dovuto a Caronte per il traghettamento nell’Ade. Lavoro anche per la comunità ebraica e prima di chiudere la cassa il rabbino sparge un po’ di terra d’Israele sul sudario bianco che avvolge la salma nuda del defunto».
Ma lei che cosa preferirebbe? Bara di legno o di cartone?
«Ah no, questa è l’unica domanda cui non posso rispondere. L’ho già detto ai miei figli: fate voi, arrangiatevi. Io non voglio saperne».
Che cos’è la vita, Savoldello?
«Per dirla in due parole, amare la famiglia e attaccarsi ai valori perenni: onestà, lealtà, moralità».
A che serve la morte?
(Ci pensa). «A che serve la morte... uhm». (Guarda nel vuoto). «A rendere più importante la vita. È un passaggio per il fisico, ma non per lo spirito, che rimane intatto».


Sulla sua lapide che cosa vorrebbe che scrivessero?
«Non banalità, tipo “I tuoi cari”».
E dunque?
«“Ho vissuto per voi e resterò sempre accanto a voi”. Anche a quelli che non mi hanno voluto bene. Pochi, grazie a Dio».
(552. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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