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Morto il quinto Beatle Era la rock star del pallone

Irlandese, dio dello swinging football, dribblava i rivali in una cabina telefonica

Morto il quinto Beatle Era la rock star del pallone

Tony Damascelli

Ventidue maggio millenovecentoquarantasei. Venticinque novembre duemila e cinque. L’esistenza di George Best si è conclusa in un letto d’ospedale. Come una candela, si è spenta lentamente, dopo aver diffuso anche i suoi profumi, prima con una luce forte e sensuale, poi fioca e desolante. Una fotografia, stampata in prima pagina sul News of the world ci aveva restituito nei giorni scorsi, l’immagine biancastra di un ex ragazzo mai diventato uomo. Era il suo ultimo gol, il tentativo, riuscito, di correre verso la folla per graffiare i cuori e scaldare le mani.
George Best forse è uno sconosciuto, o quasi, per i contemporanei che vivono il cyberspazio, i giochi di un football virtuale, le playstation e la tivvù satellitare. Non è uno sconosciuto, anzi era già una leggenda da vivo, per chi ama il pallone, per quello che riesce ancora a essere, l’aria umida attorno a un prato verde, l’olio canforato dello spogliatoio, il vociare lontano della gente, l’urlo ossessionante della folla, l’eco secca di uno shoot al pallone. Best era il football inglese anche se lui era un britannico dell’Irlanda del Nord, laddove l’isola è frantumata dalla guerriglia, laddove gli uomini devono correre più bassi anche dei tetti di case bassissime.
Best ha saputo volare alto, su quei tetti, sui campi di football, sul calcio britannico e mondiale. Li ha attraversati in un’epoca in cui la televisione non costruiva eroi ma il popolo sì, quello dei borough e dei pub. Ho detto pub? In quei fumi, di tabacco e di alcool, in quell’odore misto di orina e di cipolle, George Best ha bruciato una fetta grande della sua vita. L’ha bruciata smarrendo la direzione della porta, non ha saputo dribblare l’ostacolo, l’alcool e qualcosa d’altro che, lentamente, inesorabilmente, lo hanno svuotato, rubandolo al mondo, alla sua famiglia, ad Angie o Alex, le mogli, al figlio Calum, a suo padre Dickie che nelle ultime ore, nonostante gli ottantasette anni che si porta appresso, ha voluto stare vicino a George, come il pomeriggio della nascita, quel lontano e davvero vicinissimo nell’estate del Quarantasei.
Erano gli anni successivi alle lacrime, al sudore e al sangue. Erano gli anni in cui il football britannico metteva da parte il superiority complex sul resto dell’universo. L’isola della regina si avvicinava ai continenti, restando comunque unica, per la musica e gli abiti, il calcio e i Windsor, i Beatles e gli Stones, la guerra tra cattolici e i protestanti, il tè e il bus a due piani. Ci fu un periodo nel quale George Best riassumeva tutto questo repertorio, era insomma il ritratto che qualunque pischello avrebbe voluto disegnare sopra se stesso: fama, belle femmine, calcio e discoteca. Guardiamoci in giro: che cosa è oggi il football? Idem come sopra ma con qualche differenza.
La differenza la faceva George Best, winger, attacker del Manchester United, uno che avrebbe saputo superare in dribbling tre avversari, anche in una cabina del telefono. Una notte, in un albergo londinese vicino ad Hyde Park, tre fotografi arrivarono davanti alla porta della suite occupata dal genio; un cameriere, previo versamento di sterline in numero copioso, aprì con il passepartout: George Best stava coricato nel letto, disfatto come il letto medesimo; accanto, giaceva, bellissima, miss Mondo di fresca nomina («non ne ho avute sette ma soltanto quattro» chiarì nel libro autobiografico!); ai piedi dell’alcova un paio di bottiglie, svuotate, di champagne e sterline sparse qua è là. I flash abbagliarono la coppia e uno dei reporter disse, sorridendo: «George, ti sta incominciando ad andare tutto male, no?». Rise anche Best e miss mondo, tentando di coprire, si fa per dire, le nudità, posò in contemporanea per l’istantanea che fece il giro dei tabloid.
Allora, nella swinging London venne «nominato» il quinto Beatle. Spicchi di esistenza di George Best, assalito poi dalla voglia di andare oltre l’avversario, oltre la porta, oltre lo stadio, ai confini della vita. Violento, per colpa dell’alcool, abbandonato da chi lo aveva celebrato, dimenticato dal resto del mondo, ha finito per tornare in un letto, facendosi fotografare, come quella notte a Londra. Stavolta non c’era miss mondo, non c’erano bottiglie di champagne e nemmeno mucchi di sterline. C’era il bip bip angosciante di un monitor che controllava le pulsazioni del cuore. C’era un uomo, con il volto di cera; c’era un calciatore che prima di chiudere la porta ha invitato tutti a non seguirlo in quel corridoio senza luce.
Vengono adesso le ore del pianto e dei fiori, all’Old Trafford di Manchester e nelle strade di Belfast, il vociare lontano della gente, l’urlo ossessionante della folla, dovunque un pallone rotoli lasciando dietro di sé il ricordo di George Best.

The end.

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