Nuovi attentati, vecchia retorica. All'indomani delle bombe al metrò di Mosca, attribuite al terrorismo caucasico, il premier russo Vladimir Putin rispolvera lessico e obiettivi di dieci anni fa, quando ai tempi della seconda guerra cecena la sua promessa di «inseguire e ammazzare i terroristi fin dentro la tazza del cesso» gli assicurò l'ascesa alla presidenza.
Così nel giorno del lutto, mentre la capitale russa piange i suoi 39 morti e vive nella psicosi da bomba dopo il susseguirsi ieri di una serie di falsi allarmi e levacuazione della cattedrale del Cristo Salvatore, il capo del governo avverte: «I complici e gli organizzatori (dell'attacco) si sono messi al sicuro ed è una questione d'onore per le forze dell'ordine spurgare le fogne e farli uscire alla luce del giorno». A Putin fa eco il suo «scagnozzo», il presidente ceceno Ramzan Kadyrov: «I terroristi devono venire rintracciati e scovati dalle loro tane e bisogna avvelenarli come ratti, schiacciarli, annientarli... Non possiamo combattere questo flagello con la sola persuasione o con misure educative». Le «misure educative» sarebbero quelle proposte, invece, dal presidente Dmitry Medvedev, sempre più distante - almeno a parole - dalle maniere forti del suo premier. Il capo del Cremlino ha ribadito ieri che per sconfiggere il terrorismo nel Caucaso del nord si continueranno ad usare i metodi di forza, ma è necessario anche creare «migliori condizioni socio-economiche».
Secondo parte della stampa russa, sono proprio i dodici anni di pugno di ferro in Cecenia ad aver portato il Paese all'attuale stato di allarme rosso. La repressione violenta della guerriglia ha dato come unico frutto non la sbandierata «stabilizzazione» della regione, bensì una radicalizzazione e ramificazione delle spinte indipendentiste che fanno oggi della vicina Inguscezia una seconda Cecenia per il Cremlino. Secondo Human Rights Watch, la piccola Repubblica caucasica è diventata il posto più violento di tutta la Federazione: una corruzione endemica, innestata sul conflitto tra estremisti islamici e forze di sicurezza russe impegnate nelle operazioni anti-terrorismo, ha trasformato la zona in un mattatoio quotidiano. Con una Cecenia dichiarata «pacificata», i ribelli hanno trasformato la guerra indipendentista in jihad per l'instaurazione di un emirato del Caucaso, retto sulla sharia e comprendente anche le altre Repubbliche musulmane confinanti.
Sul piano delle indagini, intanto, si continua a seguire la pista delle «vedove nere», in mancanza ancora di una rivendicazione attendibile. La polizia moscovita ha diffuso a tutti i commissariati e alle unità operative gli identikit delle due donne kamikaze e di tre fiancheggiatori, due donne e un uomo, ripresi dalle telecamere di videosorveglianza nella metropolitana. Le attentatrici sarebbero arrivate a Mosca la stessa mattina di lunedì su un autobus proveniente dal Caucaso del nord con tre valigie. L'autorevole quotidiano Kommersant indica in Said Buryatski - ideologo dei militanti caucasici, ucciso all'inizio di marzo dalle forze di sicurezza - la possibile mente del duplice attentato. Per portare a termine il piano di distruzione, avrebbe assoldato un commando di 30 estremisti, istruiti nelle madrasse turche e addestrati tra Cecenia e Inguscezia. E 21 sarebbero ancora pronte a farsi esplodere.
In effetti, secondo le ultime ricostruzioni, le due complici avrebbero entrambe tratti slavi. E sempre Kommersant ha ipotizzato che le forze dellordine sapevano del rischio attentati. Testimoni raccontano di molte donne di aspetto caucasico fermate la mattina dellattentato con il pretesto del controllo di documenti. Il ministro degli Esteri Sergey Lavrov non ha escluso un intervento «dall'estero», una saldatura tra terroristi dal Caucaso e cellule attive tra Afghanistan e Pakistan.
Ma la strage innalza anche un altro allarme, quello dei diritti umani violati.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.