Alessandro Benetton, oggi presidente di Edizione, negli anni Novanta era il presidente di Benetton Formula, il team di F1 che arrivò a vincere un mondiale costruttori e due piloti con Michael Schumacher, facendo arrabbiare l’avvocato Agnelli. Nel 1994, l’anno del primo titolo, Alessandro aveva trent’anni e aveva già avviato la sua impresa 21 Invest. Trent’anni dopo è arrivato il momento di ripercorrere quella storia con un docufilm che andrà in onda su Sky Sport dal 28 novembre. «Da anni cerco di intrattenere un rapporto con i giovani per dialogare, condividere le mie esperienze, individuare delle analogie tra il momento attuale e il passato. Quando abbiamo realizzato un video sulla F1 per i miei social mi hanno proposto di trasformarlo in un documentario ed eccoci qui».
Come cominciò la sua esperienza in F1?
«Lavoravo a Londra in Goldman Sachs quando mi chiama mio padre e mi dice: lo zio Gilberto è molto preoccupato per l’equilibrio finanziario della scuderia. Tu che hai familiarità con i numeri vai a dare un’occhiata».
Come fu il primo impatto?
«Andai alla sede, fui ricevuto da Peter Collins che subito mi fece capire come non volesse ingerenze nella gestione della squadra e poi mi portò davanti a una porta dove c’era scritto Chairman… Era un modo per buttarmi in acqua e vedere se sapevo nuotare ».
Prima reazione?
«Ero confuso anch’io, però ho capito che era l’occasione di guardare trasversalmente alla cosa… in quegli anni ho maturato la voglia di fare l’imprenditore, di prendermi dei rischi in un settore come il private equity che all’inizio degli anni Novanta non conoscevano tutti».
Gli ingredienti di quell’avventura?
«Il coraggio di cambiare entrando in un ambiente dove tutto era codificato, la discontinuità con il passato che ci porta a non fermarci mai. In F1 abbiamo portato questo approccio, che poi è lo stesso che ho usato quando mi hanno affidato l’azienda. Da quando sono entrato, quattro anni fa, nelle grandi attività di famiglia, con i miei cugini abbiamo cambiato l’80% del management e il 75% delle attività. Il movimento come fonte di guida: purtroppo, nella storia della famiglia, abbiamo avuto esempi di come le cose non sono andate bene quando questo approccio era stato abbandonato».
Come l’avete messo in pratica?
«Abbiamo inteso il gioco di squadra non come un’organizzazione che fai a tavolino, perché metti l'attaccante, il difensore, il centrocampista, il trequartista e quant’altro, ma abbiamo lavorato perché si generasse l’energia attraverso delle personalità che sono dei detonatori di energia altrui, e che quindi creano movimento».
E a quel punto entra in scena Briatore. Il fatto che non arrivaste dalla F1, anzi che non vi conosceste per nulla, è stato un vantaggio?
«Penso di sì, eravamo slegati dalle emozioni che tante volte hai quando sei troppo coinvolto».
Che messaggio avete mandato?
«Che anche chi faceva magliette poteva vincere in F1, come disse l’Avvocato. All’inizio avevamo un vantaggio, nessuno ci prendeva sul serio, eravamo quelli che mettevano le camicie rosa ai meccanici. Ma poi quando hanno capito che facevamo sul serio, siamo anche diventati un problema».
L’insegnamento?
«Abbiamo raccontato il valore del cambiamento e quanto sia rischioso quando si incomincia a essere autoreferenziali ».
Poi un giorno vi accorgeste di Schumacher.
«Sapevo che De Cesaris era un pilota molto veloce sul giro secco e lui fu subito più veloce. Sapevo che Spa era una pista difficilissima. Sapevo che i tedeschi non avevano una grande tradizione in quegli anni e che quindi lui era emerso in un ecosistema sfavorevole. Chiamo Flavio e gli dico: ma l’hai visto questo? ».
E lì scatta l’operazione Schumacher?
«Flavio era già al lavoro e mi disse: guarda che bisognerà fare un po’ di casino e a Ponzano potrebbero non essere contenti. Gli risposi che ci avrei pensato io».
Che cosa vi ha dato Schumacher?
«Aveva tanta energia e la trasmetteva così tanto che tutto attorno all’auto funzionava nel modo giusto».
Michael vi ha portato tre mondiali e voi a lui?
«Abbiamo avuto il coraggio di metterlo subito al centro. E lui, devo dire, ci è sempre stato riconoscente».
La Ferrari per vincere prese in blocco la vostra squadra: pilota, tecnici.
«Attraverso un processo di cambiamenti continui, di aggiustamenti, di discontinuità e di coraggio, si era creato il dream team e qualcuno ha preso il dream team».
Nella F1 di oggi sarebbe ancora possibile un'impresa come quella della Benetton?
«Penso che sia tutto molto più difficile. Però vedo delle analogie nella storia della Red Bull. Anche la loro è una storia di cambiamento, di personalità. Facevano soft drink, hanno costruito un team vincente».
Da grande appassionato di sport e presidente dei Mondiali di sci 2021, che cosa si aspetta dai Giochi di Milano-Cortina?
«Li guarderò come spettatore.
Nel 2021 creammo l’unico evento sportivo italiano capace di chiudere in pareggio, coinvolgendo la comunità locale e dimostrando che eventi, organizzazione e visione generano partecipazione. E avevamo creato una piattaforma in grado di generare valore anche dopo la fine dei giochi. È questo il vero lascito, a favore della cultura e del territorio».