nostro inviato ad Appiano Gentile
«Né amici, né nemici», il titolo sulla partitissima di San Siro l’ha dato Claudio Ranieri, figurarsi che conferenza scoppiettante è stata ieri quella ad Appiano. L’allenatore della Roma si riferiva al suo rapporto con Josè.
Josè si è praticamente rifiutato di commentarla.
Ma non era schifato, anzi ha parlato di grande rispetto all’uomo e all’allenatore, spiegando che nel futuro magari chissà, bò. Non ne aveva voglia Josè e senza accorgersi ha infranto una tradizione a cui sembrava scaramanticamente legato: non parlare mai di campionato alla vigilia di una partita di Champions, non parlare mai di Champions alla vigilia di campionato. Ieri pacato, tranquillo, e assolutamente determinato a non lasciar scivolare via niente del mercoledì di coppa: «Una grande partita».
Onestamente è stato un Josè scontato, artefatto, come se la prima sincera vittoria in Europa lo avesse imborghesito almeno nel linguaggio facendolo diventare uno dei tanti: «Non abbiamo vinto niente, non sappiamo ancora se saremo primi o secondi nel girone, potremmo finire terzi in Europa League o addirittura fuori da tutto. È il girone più difficile e i risultati lo dimostrano. Negli altri c’è una squadra debolissima e quindi tutte hanno sei punti in classifica dopo averla incontrata. Nel nostro ognuna ha ancora intatte le possibilità di entrare negli ottavi. Siamo primi ma abbiamo il 60 per cento di probabilità di passare il turno solo all’ultima giornata». Ci si poteva arrivare anche con la classifica davanti. Nessuna battuta, nessuna smorfia, il confronto con quelle conferenze chiuse con scroscianti applausi è impietoso, ma Josè ha voluto precisare che uno come lui non si esalta per così poco e vorrebbe che anche in questa occasione la squadra lo seguisse: «Nulla di speciale a Kiev. Dopo 14 titoli vinti in carriera, un successo in Champions non mi dà niente di nuovo. Vorrei che fosse così anche per i miei giocatori, la storia è piena di sconfitte dopo vittorie importanti».
Qui Josè qualcosa di buono l’ha cavato fuori. La parabola era sulla tranquillità, insomma l’autocontrollo, qualcosa che traccia il solco fra una squadra mediocre e un club vincente, la capacità di restare in partita anche dopo il fischio: «Ora c’è un entusiasmo che non condivido. All’improvviso non sono più un comunicatore e basta ma ora sono diventato un allenatore. Eppure questa vittoria non mi dà niente. Io credo che quando si dice che una squadra ha carattere si intenda qualcosa di diverso. Mostrare carattere è anche rimanere tranquilli dopo una vittoria, magari storica, magari epica, con una grande rimonta negli ultimi cinque minuti, ma solo e soltanto tre punti. Adesso parlano del nostro finale di partita con due difensori e otto attaccanti, dicono che è stata una decisione formidabile. Ma cosa ci diranno quando finiremo una partita con otto difensori e due attaccanti? Vincere all’ultimo minuto è fantastico, dà emozioni forti, ma anche perdere all’ultimo minuto è un dramma». Roba abbastanza forte, ma soltanto perché il resto della conferenza è rimasto nella norma con un’ultima eccezione: «Il risultato di una partita ha un valore effimero, io spero invece che i miei giocatori abbiano capito che anche in Europa possono fare qualcosa di importante. Questo aspetto assieme alla presenza di giocatori che sanno coprire ruoli diversi, è quanto io intendo per evoluzione di una squadra». In fondo se lo segui Josè non ti tradisce mai, deprime solo il ricordo del recente passato quando prendeva a schiaffi le regole, saliva in cattedra e pontificava con la musica a palla. Adesso dice: «La Roma? È da scudetto, non sono neppure certo che la batteremo. Dipenderà da noi». Noi chi? Santon? Balotelli? Sbagliato, i ragazzi restano ai margini, il primo nemmeno convocato.
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