Il mouse? Nuovo plettro Ecco come internet ora uccide la chitarra

Finito per i giovani il fascino del "guitar hero" alla Santana. Nel 2010 il mercato è calato di quasi dieci milioni di euro. A vantaggio di software e tecnologia varia

Tanto c’era da prevederlo. L’elettronica, i software, il mouse, internet e tutte quelle cose lì si sono mangiati l’essenza del rock, la chitarra, il rapporto fisico tra le dita e la tastiera da cui far sgorgare gli accordi. I dati parlano chiaro, più chiaro di quel che sembri: solo in Italia le chitarre e gli strumenti a plettro nel 2010 sono crollati. Si tratta di un mercato marginale, per carità, come è sempre stato: ma sono stati venduti quasi dieci milioni di euro di strumenti a plettro in meno rispetto all’anno precedente. In percentuale, il mercato complessivo ha avuto una flessione del 5,7 per cento che, secondo il presidente di Dismamusica Claudio Formisano, è una ferita «meno seria di quanto sembri».

Ennò. È un segno dei tempi, almeno per quanto riguarda la musica. È la dimostrazione che un’epoca è finita, e non è finita semplicemente perché sono finite le canzoni. Si è assopita la voglia di costruirle, di crearle, di esserne artigianalmente gli artefici.
Vero: è un processo che è iniziato tanto tempo fa, quasi una generazione, e che prodigi della tecnologia come il pro tools, ossia software più usati per l'elaborazione e la produzione digitale di musica, hanno reso quasi inevitabile, oltre che comodissimo. Perché stare ore e ore, giorni e giorni, su di una chitarra per trovare le note giuste, gli effetti giusti, persino i toni giusti. Pensate che il favoloso suono di chitarra di Mark Knopfler in Money for nothing dei Dire Straits (con la voce di Sting nell’intro: «I want my Mtv»)è frutto dell’ascolto forsennato di J.J. Cale e, soprattutto, della riduzione a zero dei bassi della chitarra. Ma è solo un esempio. Oggi c’è un altro tipo di ricerca. Oggi basta il mouse.

Dimenticate i tempi in cui il pubblico, specialmente quello giovane, stava sotto il palco di qualche eroe della chitarra, prendi Carlos Santana o Jimmy Page, in attesa dell’assolo, di quella gragnuola di note che dava il senso non solo a una canzone ma anche al tempo in cui veniva suonata. Non è un caso che su qualche muro di Londra, tanti e anni fa, qualcuno avesse scritto «Clapton is God», dove Clapton è Eric e God sta per dio, in questo caso però Mercurio, il messaggero, quello che portava le novelle, le novità, i cambiamenti mica solo i virtuosismi inauditi.

Ecco, la chitarra rock, quello strumento che si vende sempre meno, è stata per trent’anni una specie di gazzettino della società: c’era bisogno anche di una Gibson o di una Fender per capire come stavano le cose tra i giovani. Non c’è nulla, per chi avesse orecchie, che annunciasse meglio dell’assolo di David Gilmour dei Pink Floyd in Another brick in the wall che era stato davvero infilato l’ultimo mattone nel muro prima del crollo. Una struttura modulare, quell’assolo, in qualche modo persino semplice ma quasi più efficace dei versi. E tutti i saggi orecchiuti, allora, persino in Sudafrica dove la canzone fu subito censurata, avevano capito di quale muro si trattasse. Bene, adesso è un’altra storia.

Adesso c’è internet e bisogna smanettare giusto un po’ per arrabattarsi e mettere in piedi una canzone purchessia, che sia in grado di mutuare ritmi di batteria preconfezionati e suoni di chitarra campionati e modulabili a piacere. Oppure che faccia a meno del tutto della chitarra. Nel fatturato complessivo di 340,294 milioni di euro del 2010, sono calati, certo, gli strumenti ad arco, gli spartiti musicali, i componenti per l’amplificazione del suono e gli accessori. Ma la flessione più grande è proprio quella delle chitarre (e dei bassi), che sono l’asse portante del rock vecchio stampo o addirittura del rock tout court. Elvis Presley nell’ottobre 1956 si presentò con un chitarrone all’Ed Sullivan Show per cantare Hound dog e diventare The pelvis per sempre. I Beatles idem, quasi dieci anni dopo. E Kurt Cobain al Tunnel di Serena Dandini, due mesi prima di spararsi in testa, era aggrappato alla sua Fender. Roba di secoli fa. Adesso, certo, ci sono ancora fenomeni come Steve Vai, pupillo di Frank Zappa e poi di David Lee Roth e Whitesnake, che a febbraio ha provato a entrare nel Guinness dei Primati tenendo la lezione più seguita del mondo, naturalmente sul web. Ma sembra sempre più una risacca marginale. Digitalizzandosi, la musica ha perso la sensibilità manuale, che è decisiva.

E diventa una sorta di assembramento mixato, filtrato, per carità magari innovativo (Guetta ad esempio è un fenomeno) ma pur sempre privo di quel fascino artigianale e spesso epico che è dato dal confronto quasi sessuale tra uomo e strumento, tra genio e possesso. Tempi che cambiano così in fretta da non lasciar spazio neanche alla nostalgia. E che la contabilità delle vendite fotografa perfettamente, almeno stavolta.

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