Moussavi non cede: «Continueremo la nostra battaglia»

Non lo si vede da una settimana, ma è ancora libero, ancora deciso a combattere, ancora pronto a sfidare il regime. Hussein Mousavi il leader desapericido, il capo dato per arrestato o sulla strada della latitanza, non molla, riprende in mano la tastiera, rilancia dalle pagine del suo sito web, promette a tutti i suoi sostenitori di non indietreggiare di un solo passo. «Siamo di fronte ad un grande imbroglio elettorale... ma io non mi farò cacciare dalla scena, i mascalzoni delle elezioni sono gli stessi che causano disordini, gli stessi che spargono il sangue della nostra gente. Non rinuncerò neppure per un attimo, né per convenienza personale né per paura delle minacce, continuerò a battermi per garantire i diritti di un popolo di cui viene ingiustamente sparso il sangue».
Quel grintoso e combattivo segnale di vita suona non solo necessario, ma indispensabile. Soprattutto dopo l’arresto, ieri l’altro, di oltre 70 professori universitari appena usciti da un incontro con il capo dell’opposizione e dopo le allarmate voci sulla sua «scomparsa» o sul suo probabile confino agli arresti domiciliari. Voci e indiscrezioni generate non dall’ansia dei suoi collaboratori ma, come fa capire il leader dell’onda verde, da un’effettiva situazione di minaccia. «Le recenti pressioni su di me – scrive Moussavi - puntano a farmi rinunciare alla mia richiesta di annullare le elezioni». La verità è tutta in quella parola, «pressioni», usata per riassumere eufemisticamente l’arresto di oltre 140 collaboratori tra cui l’intero quartier generale elettorale, la redazione al completo di Kalameh ye Sabz, quotidiano di riferimento dell’onda verde, e i 70 professori sbattuti in gattabuia mercoledì sera (secondo alcune fonti 66 di loro sarebbero stati liberati ieri) mentre milizie e forze di sicurezza massacravano i protestanti davanti al parlamento.
In quelle ore dominate dalla politica del pugno di ferro qualcuno cercava il colpo finale, l’arresto di Moussavi. Non a caso Mohammad Taghi Rahbar, uno dei falchi del Parlamento, risponde alla sfida del capo dell’opposizione promettendogli, se non ritirerà le sue dichiarazioni un fine peggiore di quella del presidente Banisadr, costretto alla fuga e all’esilio. La politica dell’ala dura rappresentata dalla Suprema Guida Alì Khamenei e da Mahmoud Ahmadinejad fa però i conti con il malcontento di settori sempre più ampi del regime. Alì Akbar Rafsanjani, potente presidente del Khobregan, l’Assemblea degli Esperti a cui spetta la nomina, ma anche la rimozione della «suprema guida», ha in tasca l’appoggio di una cinquantina degli 86 ayatollah membri dell’organo costituzionale e cerca ora sostegni tra le forze armate. Non appena avrà dietro a se abbastanza fucili convocherà una riunione d’emergenza per togliere una parte dei poteri dalla Suprema Guida e trasferirli a un comitato di garanzia sotto il suo controllo. Il presidente del Majlis Alì Larijani, capofila di quell’ala nobile dei conservatori poco disposta a mescolarsi con Mahmoud Ahmadinejad e la sua compagnia di militanti duri e puri erode intanto il potere del presidente. I festeggiamenti di mercoledì sera per la rielezione di Ahmadinejad hanno visto l’assenza di Larijani e di 185 dei 290 deputati eletti.
I resoconti della violenta repressione ordinata dal regime si arricchiscono intanto di testimonianze sempre più agghiaccianti, anche se non sempre confermati.

Un dottore dell’ospedale Rasul Akram di Teheran racconta di aver condotto 38 autopsie su dimostranti uccisi da più di un proiettile a comprova del fatto che milizie e forze di sicurezza sparerebbero a raffica con il chiaro intento di uccidere. Affermazioni impossibili da provare perché tutti quei cadaveri sono stati già prelevati dalle forze di sicurezza, caricati su dei camion e trasferiti in località sconosciute.

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