Roger Waters, ovvero come mettere in cantina i Pink Floyd e tornare ad arrampicarsi sui «muri» con lo spettacolare gigantismo dell’opera The Wall. L’ambiziosissimo show nato nel 1980 dalle angosce di Waters non muore mai e, alla faccia di chi sostiene che «la gente non è interessata ai tormenti di un miliardario», riparte per l’ennesima tournée, con sei tappe italiane tutte esaurite al Forum di Milano (1, 2, 4, 5 aprile e ripresa il 6 e 7 luglio). Dopo lo show del ’90 fra le rovine di Berlino i mattoni sono stati rimessi a posto, con nuovi pupazzi gonfiabili, nuove animazioni - che vedremo a Milano - curate come sempre dal genio di Gerald Scarfe (che ha lavorato con Disney e ha dato volto e colore alle opere più importanti dei Pink Floyd), che racconta con splendide immagini inedite e interviste alla band la storia del Muro nel volume Pink Floyd The Wall, appena uscito per Rizzoli. «Lavorare coi Pink Floyd? - ricorda Scarfe - non mi piacevano molto, poi nel ’73 andai al Rainbow a vedere un loro concerto. Spettacolare! Mentre suonavano, la riproduzione di uno Stuka tedesco volò sulla platea, avvolto dalle fiamme, schiantandosi sul palco con un boato spaventoso. Mi è sempre piaciuta la megalomania, e decisi che quello era l’ambiente di lavoro adatto a me». E ancora: Roger lavorò per mesi su musica e testi poi ci sedemmo nel mio studio ad ascoltare il nastro di lui che cantava in un sintetizzatore. Da lì partì questa incredibile opera». Per gli appassionati un’orgia di disegni in pura pop art con le immagini più celebri dello show (dalla «marcia dei martelli» al maestro che mura i bambini innocenti) alle sorprese, come il nuovo personaggio Reg Troll, il nuovo modello di creta della moglie del maestro, i famosi martelli ridisegnati al computer. «Ora il muro è più grande - racconta Scarfe - nei concerti originali mettemmo in sincrono tre proiettori per coprirlo tutto, ora ne abbiamo sette e ho detto a Roger che avremmo ottenuto un effetto ancor più potente di quello del passato, ma lui non ha voluto ripetere la stessa immagine, quindi avrete parecchie sorprese».
Una festa dei sensi, una visione onirica che unita alla forza della musica si traduce in uno show tra i più ambiziosi ed evocativi della storia del rock ed al tempo stesso è l’ego trip finale di Waters, che però non accenna a finire. Nato dall’esigenza di costruire una barriera che esprimesse il suo senso di isolamento nei confronti del pubblico (l’idea nacque durante un concerto a Montreal nel ’77, quando Rogers sputò sulla folla che gridava anzichè ascoltare i suoi testi), s’è evoluto come argine per difendersi dagli attacchi di chi ci sta vicino - dai genitori ai maestri - e infine è diventato sinonimo di libertà buono per tutti gli usi. D’accordo, con le sue metafore ha funzionato per suggellare la riunione dell’Europa, ma ora Waters lo cavalca come una tigre del pacifismo, adattandolo all’Afghanistan come all’Irak come alla Palestina. Perché riproporre The Wall ora? Spiega Waters sul suo sito, e si lancia in una filippica sul «cinismo dell’essere umano che deve superare lo spirito da cane mangia cane e recuperare la gioia di vivere insieme». Nella sua presunzione prosegue: «il nuovo The Wall è un tentativo di rimettere le cose a posto ed è dedicato a tutta l’innocenza persa in questi anni». Abbiamo bisogno di un grande musicista, non di un nuovo predicatore, e The Wall lo riascoltiamo volentieri, ancor più volentieri senza pistolotti pseudointellettuali. Lo ha scoperto di recente Waters stesso che, dopo aver pubblicato su Internet per protesta una nuova versione dell’inno We Shall Overcome, quando vietarono alla marcia per la libertà di avvicinarsi a Gaza, s’è visto scrivere su Facebook: «Volevo venire al tuo concerto. Perché devi metterci in mezzo la politica?».
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