Controstorie

Il muro anti profughi, Dio nella Costituzione e un'Europa "nemica"

Viaggio nel Paese nel mirino dell'Ue per la difesa dei valori cristiani e per il suo no all'accoglienza di altri immigrati

Il muro anti profughi, Dio nella Costituzione e un'Europa "nemica"

Abbiamo visitato l'Ungheria dei muri e delle campagne anti-immigrati che hanno fatto discutere la comunità internazionale. L'Ungheria della difesa della famiglia e delle radici cristiane dell'Europa, che chiede più sovranità e meno dipendenza dalla burocrazia, dal laicismo e dal super statalismo di Bruxelles. L'Ungheria di Viktor Orbán, il controverso primo ministro ungherese, oggetto di forti critiche da parte dell'Unione europea e oggi in prima linea nel fronte euroscettico su molte questioni: dall'economia, all'immigrazione. Molto è cambiato infatti, da quando, leader venticinquenne dell'Alleanza dei giovani democratici nel 1988, il premier ungherese animava i comizi del fronte liberale anti comunista nella piazza degli Eroi di Budapest. O da quando, per la prima volta al governo dal 1998 al 2002, trasportava l'Ungheria all'interno dell'Alleanza atlantica. Oggi Fidesz è un partito che sta virando sempre più decisamente su posizioni nazionaliste ed euroscettiche. Una manovra, questa, iniziata nel 2010 quando, cavalcando i temi della crisi economica e del malgoverno di sinistra, il partito è tornato al governo ottenendo la maggioranza assoluta in Parlamento con il 52,73%. La svolta conservatrice è proseguita poi nel 2011 con l'approvazione della nuova Costituzione ungherese, nel cui preambolo venivano individuati Dio e i valori cristiani come valori fondanti della nazione, in malcelata contrapposizione con la scelta di Bruxelles di vietare qualsiasi riferimento alle radici cristiane dell'Europa nel trattato di Lisbona. Una Costituzione che ha codificato il primato dei cittadini ungheresi dentro e fuori i confini nazionali, il matrimonio tra uomo e donna come l'unico riconosciuto e la difesa della vita sin dal suo concepimento. E che per questo è stata attaccata dalle istituzioni europee e da Paesi come la Germania, con l'accusa di essere poco rispettosa delle libertà dei cittadini e dei diritti umani.

Nelle ultime elezioni però, quelle del 2014, gli ungheresi hanno rinnovato la fiducia al Fidesz, che ha vinto con il 45% dei voti. La flessione rispetto al risultato del 2010 è spiegata dall'avanzata nelle percentuali elettorali di Jobbik, l'altro punto di riferimento dell'Ungheria nazionalista, che nelle stesse elezioni ha guadagnato quattro punti, passando dal 16% al 20%. L'ascesa di Jobbik è stata confermata anche nelle suppletive dello scorso aprile a Talpoca, dove il partito ha strappato un seggio al Fidesz, tanto da far pronunciare molti analisti sulla seria possibilità per l'estrema destra ungherese di andare al governo nel 2018. Per ora sono solo pronostici, ma sta di fatto che in Ungheria oggi l'opposizione social-democratica non è incisiva, e sono invece le forze nazionaliste a crescere.

Nonostante le forti critiche piovute sul suo esecutivo, il programma di «nazionalizzazione» economica di Orbán ha però vantato degli innegabili successi. Nel 2013 l'Ungheria è uscita dalla crisi e il Pil è salito fino all'1,1%, con l'aumento di domanda interna e occupazione. La ricetta del successo? Gli 800 milioni di euro di prestiti statali alle Pmi e pesanti tasse sui profitti di banche e società straniere. Assieme al taglio dei costi sulla bolletta del gas e della luce, che più di tutto ha fatto entrare Orbán nel cuore degli ungheresi. Non mancano però le contestazioni, come testimoniano le frequenti manifestazioni di piazza contro la piaga della corruzione e le proteste di interi settori come quelli della sanità e della scuola, che lamentano un sistema troppo precario e stipendi troppo bassi. C'è, poi, chi accusa il governo di aver preso una deriva autocratica con le leggi restrittive sulla libertà di stampa e chi punta il dito contro l'eccesso di retorica populista che non troverebbe riscontro nei fatti. Ma c'è un punto sul quale gli ungheresi sembrano essere tutti d'accordo: a entrare nell'Eurozona non ci pensano proprio. Avere una moneta nazionale, viene considerato infatti, da molti, come per la Polonia e la Repubblica ceca, un fattore di competitività. L'adozione della moneta unica, per dirla con le parole di Orbán, è quindi un processo che, se sarà mai avviato, «richiederà decenni». E richiederà anche la modifica della costituzione, che stabilisce nero su bianco che il fiorino ungherese deve essere la moneta nazionale. La recente elezione di Andrzej Duda in Polonia, mostra poi come questa tendenza si stia allargando oltre i confini magiari. Il quarantaduenne del Pis (Diritto e giustizia), la destra populista anti russa di Jarek Kaczynski, è stato eletto presidente con il 53% dei consensi, dopo una campagna elettorale tutta incentrata sull'euroscetticismo e sul richiamo ai valori tradizionali cattolici e patriottici, cavalcando il malcontento dei giovani disoccupati e dei precari. Duda e Orbán hanno una storia simile: entrambi liberali e anticomunisti, seguono un percorso che li porta ad attestarsi su posizioni radicali e conservatrici. Quello che li differenzia è soprattutto l'approccio nei confronti di Mosca: il partito di Duda è profondamente russofobico e anti tedesco mentre al contrario Orbán, nonostante abbia votato anche lui le sanzioni, punta a relazioni privilegiate con il Cremlino. Un partenariato strategico che passa per le ingenti forniture di gas, per i 10 miliardi di euro di investimenti di Mosca sul nucleare in Ungheria e per il sostegno ungherese al nuovo progetto del Turkish Stream.

Quando siamo stati ad Áshottalom, il paesino magiaro al confine con la Serbia divenuto crocevia per migliaia migranti provenienti dalla Siria, dall'Irak, dal Pakistan, dall'Afghanistan, dal Nord Africa e dal Kosovo, ci siamo resi conto dell'entità del fenomeno dell'immigrazione incontrollata in Ungheria. Qualche settimana prima dell'annuncio della costruzione del muro, abbiamo visto e intervistato decine di migranti che nascosti nella foresta che segna il confine con la Serbia, cercavano di aggirare i controlli, pressoché inesistenti, per entrare in Europa. Il sindaco di Áshottalom, Lazslo Toroskay, ci spiegava come questo fosse un fenomeno nuovo, iniziato nel 2012, quando il governo di Orbán, cedendo alle pressioni dell'Ue, ha depenalizzato il reato di immigrazione clandestina. A seguito di questo provvedimento, anche la polizia di frontiera è stata sciolta. «L'Unione europea - accusa il sindaco - dopo averci tolto i mezzi per proteggere questo confine Schengen, non si è interessata minimamente al problema», che nel frattempo ha raggiunto numeri spropositati: le richieste d'asilo in Ungheria infatti sono passate da 2.157 nel 2012 a 43mila per tutto il 2014, e 50mila per i primi mesi del 2015. Oggi i profughi che ogni giorno attraversano il confine sono centinaia. Provenienti tutti dalla rotta balcanica, vengono prelevati perlopiù nella foresta dai trafficanti, oppure si incamminano lungo le strade della cittadina, dove vengono fermati dalla polizia ungherese che li porta nel campo profughi di Röske, vicino Szeged, dove dovrebbero restare tre mesi per i controlli. In realtà la maggior parte riesce a scappare molto prima e a lasciare l'Ungheria per raggiungere l'Italia o la Germania. «L'Unione europea ci ha lasciato soli» questo è quello che ripetono tutti. Anche in parlamento a Budapest, dove sono state pensate una serie di iniziative che hanno fatto discutere. Dalla diffusione dei questionari per verificare la posizione sull'immigrazione di otto milioni di ungheresi, fino all'annuncio choc del ministro degli Esteri Peter Szijjarto, della costruzione del muro di 175 km alto 4 metri al confine con la Serbia per bloccare gli ingressi. Una proposta lanciata due anni fa proprio dal sindaco Toroskay, vicino a Jobbik. E alla fine, dopo che il governo aveva detto di sì nelle scorse settimane a un più sobrio memorandum d'intesa trilaterale con Austria e Serbia per il rafforzamento dei controlli alle frontiere condivise, la controversa legge che prevede l'accelerazione nei processi di espulsione degli immigrati irregolari e la costruzione della barriera è stata approvata anche in parlamento. Grazie al voto in blocco dei parlamentari di Fidesz e Jobbik.

La linea dura di Orbán sull'immigrazione quindi, oltre ad essere la risposta ad un fenomeno migratorio difficilmente controllabile è spiegabile anche con la necessità per questo esecutivo di recuperare consensi rispetto all'altra forza politica nazionalista, Jobbik, che, grazie alle sue posizioni radicali proprio su questo tema, sta crescendo nei sondaggi.

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