Il muro di Erika

Finalmente l’abbiamo vista bene - in televisione e nelle fotografie dei quotidiani - l’Erika che il 21 febbraio 2001 vibrò 97 coltellate alla madre e al fratellino Gianluca: quel fratellino che nel suo ultimo tema scolastico aveva scritto «Il mio migliore amico è mia sorella». Abbiamo visto, senza più schermature protettive, una bella ragazza - d’aspetto sano e d’espressione allegra - impegnata in una partita di volley insieme ad altre detenute del carcere di Verziano in provincia di Brescia. «Oltre il muro»: così è stata simbolicamente chiamata l’iniziativa di cui ha usufruito anche Erika per un ritorno sia pur breve nel mondo dei liberi. Un’iniziativa ispirata senza dubbio a concetti molto nobili, e innumerevoli volte ripetuti. La pena dev’essere riabilitativa e non afflittiva, la società è anch’essa colpevole per i fenomeni di criminalità, i giovanissimi vivono in profondo disagio, e così via. Bisogna essere «aperti», capire.
Ci sforziamo d’esserlo, ma fino a un certo punto. Molti italiani - suppongo, e credo di non sbagliare, la maggioranza - ha avvertito come un’offesa alla sensibilità collettiva, al senso di giustizia (e, diciamolo, pure anche alla memoria delle povere vittime d’un delitto atroce) la gita di Erika e il suo evidente buonumore. Ha suscitato disagio profondo la vacanza «oltre il muro», ne ha suscitato forse ancora di più la risonanza mediatica che essa ha avuto, e la melassa che l’ha avvolta. La gente comune avrebbe magari tollerato - con sforzo - un’Erika impegnata nel volley: ma in segreto o almeno con discrezione, senza obbiettivi, senza telecamere, senza taccuini di cronisti. L’onnipotenza dell’immagine, la propagazione gigantesca della notizia, hanno riportato Erika al suo ruolo di protagonista, ma adesso con sottolineature positive. Sono finiti nell’archivio della memoria il sangue e la ferocia, rimane la vitalità d’una ragazza che sembra come tante. Se appena fosse possibile se la contenderebbero i talk-show e la corteggerebbero i rotocalchi del gossip. Mi pare di ricordare che Erika abbia ricevuto negli anni scorsi una nutrita corrispondenza d’ammiratori e spasimanti.
Come la donna, anche l’opinione pubblica è mobile. Dopo i fatti di sangue più efferati si levano impetuose le invocazioni alla pena di morte e a una spietata legge del taglione. Il che dura alcune settimane, a dir tanto alcuni mesi. Nella fase successiva l’indignazione si acqueta, dalla biografia di assassini e assassine emergono particolari toccanti, risulta che in prigione tengono una condotta esemplare e pensano di dedicarsi un giorno al volontariato. Quando poi se la cavano discretamente nel calcio o nel volley se ne deduce che il progetto di redenzione è a buon punto.
Personalmente sono contro la pena di morte e riconosco che il carcere deve avere tra i suoi scopi il recupero morale e sociale del condannato. Ma la pena non può essere ceduta a prezzi di saldo per far contenti i colpevoli e i loro avvocati. Anche nei casi di chi era minore d’età quando uccise - lo era Erika - deve pur esserci una proporzione ragionevole tra la mostruosità del crimine e il trattamento carcerario, deve essere rispettato il criterio che la pena è sì riabilitativa ma anche esemplare, deve dimostrare che il delitto non paga. Se invece un delitto spaventoso, seguito da una condanna tutto sommato abbastanza mite, finisce in volley - sotto lo sguardo indulgente dei mezzi d’informazione - il messaggio è di tutt’altro genere.


Alcuni psicologi hanno spiegato che questa eccessiva comprensione nuoce anche a Erika: aiutata non a una presa di coscienza, al pentimento, a una riflessione profonda, ma a rimuovere il sangue e le coltellate di cinque anni or sono. Un incidente, la vita comincia adesso. Francamente, un po’ troppo facile.

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