«I o odio la musica classica». Sono passati sette anni da quando Alex Ross lanciò sul New Yorker, nellincipit di un articolo intitolato Senti questo, una delle sue tipiche affermazioni paradossali. A fermarsi alla prima riga tremano i muri, gli archetti, le sale da concerto, i conservatori, i Bortolotto e gli Isotta, ma soprattutto gli officianti di quello che Ross chiama «culto di mediocre elitarismo». Quella convinzione lapidaria e snob che la musica che ascoltano gli altri sia sempre spazzatura e che soltanto là dove «loro» puntano il dito - di solito verso il paradiso, ma descrivendolo con linguaggio da venditori di immobili di lusso, commenta sempre Ross - stia la «vera arte». Proseguendo nella lettura, si scopre che «musica classica» è detestabile in quanto è nel tempo divenuto sinonimo di «musica morta». Gabbia linguistica, perifrasi letale, che incatena lo spirito di Beethoven al passato, intrappola unarte vibrante in un limbo tematico, impedisce ai compositori contemporanei di riuscire a a spiegare a persone dotate di cultura media che diavolo di lavoro facciano per sopravvivere. Un capolavoro di pubblicità negativa che alimenta una sana invidia verso chi, ad esempio, fa e ascolta jazz e può permettersi di chiamare quelle note semplicemente «musica».
Da quellarticolo prende il nome, e le prime pagine, Senti questo, il secondo saggio di «educazione allascolto» (in uscita per Bompiani l8 giugno, pagg. 588, euro 24, traduzione di Andrea Silvestri) firmato da quello che è ormai diventato il critico musicale più famoso del mondo, in grado con il precedente Il resto è rumore - tradotto in quindici lingue e vincitore del National Book Critics Circle Award, del Guardian First Book Award, del Premio Napoli e del Grand Prix des Muses, finalista al Pulitzer - di avvicinare alla musica contemporanea centinaia di migliaia di neofiti, percorrendo una imbattuta, fertile e miracolosa linea mediana tra critica e divulgazione, tra Harold Bloom e Piero Angela. Per questo volume, ad esempio, Ross si è inventato un percorso nuovo nella storia della musica, un sentiero inesplorato che chiama «il basso del lamento». Grazie ad unaccuratissima playlist di iTunes - come tutti i grandi divulgatori, Ross cerca di mettere in condizione qualsiasi tipo di pubblico di procurarsi le prove provate dei suoi ragionamenti - il critico ha rintracciato, nellultimo millennio di musica, una serie di quattro note discendenti, simili a un singhiozzo o a un lungo sospiro, insomma il nucleo musicale del «lamento primordiale». Uneco blues comeune agli antichi canti romeni, alla canzone elisabettiana per liuto e voce di John Dowland Flow my Tears, al Lamento della Ninfa di Claudio Monteverdi e a Strange Fruit di Nina Simone fino a Michelle dei Beatles, Hotel California degli Eagles, Ballad of a Thin Man di Bob Dylan, il tutto passando per Bach e Beethoven (per seguire il ragionamento senza sbavature, trovate sul blog di Ross, therestisnoise.com, gli mp3 dei brani-chiave già montati a perfezione).
Eppure Alex Ross - classe 1968, alle spalle studi di pianoforte, composizione e oboe, ex programmatore della classica alla radio di Harvard durante gli anni del college, ammesso allAmerican Academy di Berlino e al Banff Centre - in quattro anni trascorsi come critico musicale del New York Times prima e quindici al New Yorker poi, ha avuto tempo e modo per farsi ricoprire dal medesimo strato di polvere che incrosta i suoi colleghi. Se non è accaduto, è per lo stesso motivo per cui molti guardano con supponenza al «metodo di ascolto Ross», lo stesso che ieri allAuditorium di Roma ha potuto sperimentare anche il pubblico italiano: lui con la «musica classica» ci si sveglia, ci va a letto, ci mangia, ci si diverte, insomma, ci vive, da quando aveva dieci anni.
Nella primavera del 1978, mentre lAmerica era in piena febbre del sabato sera, il piccolo Ross comprava il suo primo LP: la Nona di Bruckner. Dovette averne venti, di anni, per scoprire per la prima volta Bob Dylan (più o meno quando tutti stavamo incominciando ad archiviarlo). Prima di allora, come racconta in Senti questo, gli bastavano e avanzavano il Brahms di Toscanini, il Sibelius di Koussevitzky, il Quartetto di Budapest. E non perché fosse un fricchettone, ma perché guardava già da adolescente a quei brani come musica ancora viva e vitale, una febbre di tutte le sere, senza pulpiti, podi, falsi altari a cristallizzarne lemozione: nella Passione di San Matteo di Klemperer sentiva i Led Zeppelin, lEroica di Beethoven gli faceva venir voglia di comporre. Ebbe un maestro di piano, Denning Barnes, che gli svelò che lultima sonata per pianoforte di Beethoven era u'anticipazione del boogie-woogie.
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