
Oggi sono passati quarant’anni dal Live Aid, quando il 13 luglio 1985, alle ore 18 e 41, i Queen salirono sul palco dello stadio di Wembley per dare vita a un evento storico. Prima di quel momento Freddie Mercury era semplicemente uscito di casa insieme al suo compagno Jim Hutton (Freddie lo chiamava “mio marito”), che quel giorno lo avrebbe visto esibirsi dal vivo per la prima volta. Erano in auto e si stavano dirigendo verso il più grande concerto della storia come se niente fosse, forse perché nessuno lo sapeva ancora, nemmeno Freddie (ci andava controvoglia), probabilmente solo Brian May che lo aveva convinto con una frase semplice: “se non lo facciamo ce ne pentiremo”.
I Queen non erano la band più attesa, anzi erano considerati superati, avevano pubblicato The Works ma si parlava più delle tensioni interne che della musica, i progetti solisti non avevano fatto bene a nessuno (meno dei pettegolezzi al riguardo in ogni caso, erano stati reduci da un tour mondiale), e soprattutto Freddie aveva detto chiaramente che non gli interessava fare beneficenza in pubblico, perché la beneficenza non si fa per essere visti. Tuttavia alla fine salì su quel palco con una semplice canottiera bianca, dei jeans attillati e un bracciale di cuoio e metallo attorno al braccio, niente di più, a parte se stesso, e per ventuno minuti diventò una divinità, o meglio mostrò al mondo quello che era sempre stato.
Il set fu perfetto proprio perché non lo era, era uno spettacolo mondiale e non pensato per i Queen. I quali aprirono con Bohemian Rhapsody (senza l’opera), poi Radio Ga Ga, Hammer to Fall, Crazy Little Thing Called Love, We Will Rock You, We Are the Champions e infine (post performance) Is This the World We Created…?, con solo Mercury e May, una chitarra, una voce, e settantamila persone che trattenevano il fiato, perché la risposta, già allora, era no, non è questo il mondo che volevamo.
C’è un momento preciso in cui il Live Aid smette di essere un evento e diventa mito: quando Freddie lancia il suo Ehhhh! Ohhhh! e la folla risponde, il momento in cui capisci che il pubblico è diventato strumento, estensione, cassa toracica, e il corpo di Freddie non è più solo corpo, è onde d’urto, è pelle collettiva, è puro ritmo organico, è carisma allo stato puro, e perfino il famoso clap clap di Radio Ga Ga non era preparato, è successo, scatenando un’ipnotismo collettivo che dura ancora oggi (su Youtube trovate numerose reaction di giovani, cresciuti con dei miti costruiti con l’autotune, che alla prima visione del Live Aid restano imbambolati e dicono “non è umano!”).
Tutti i professionisti ne rimasero sbalorditi, e la rivista Rolling Stones incoronò l’esibizione come la “greatest live in the history of rock music”, e tutto venne fuori come fosse naturale, e non c’era finzione, nessuna coreografia né regia studiata prima (a un certo punto Freddie inizia a amoreggiare con il cameraman, che non se lo aspettava), solo carisma, sudore, precisione, eccesso, presenza, e quella voce, quella voce unica che sembrava passare da Mercury alla folla e poi tornare indietro e che nessuna AI, nessun Freddie digitale potrà mai simulare.
E no, non è vero quello che racconta il film Bohemian Rhapsody (non riesco più a vedere Rami Malek da quel film) secondo cui Freddie aveva scoperto quell’anno di essere malato, non c’era nessun momento in cui dice ai suoi compagni che sta per morire e cantano tutti insieme piangendo: quella è Hollywood (con la complicità di Brian e Roger), per chi ama i Queen una patetica finzione: la verità è che dopo il Live Aid Freddie era in piena forma, più vivo che mai, e le cose più belle dovevano ancora arrivare. A cominciare dal Magic Tour, che andò avanti fino al 1986. Certo, nel 1987 arrivò la diagnosi di AIDS, e tuttavia cosa fece Freddie?
Tante cose, tra cui The Miracle, Innuendo, Barcelona con Montserrat Caballé (che lo avrebbe portato alle soglie delle Olimpiadi, purtroppo è morto prima), These Are the Days of Our Lives e I’m going slightly mad (due canzoni con i due ultimi video di un Freddie emaciato, eppure ancora con l’energia di volersi trasformare in spettacolo anche mentre il suo corpo cedeva), e infine molte canzoni postume (nell’album Made in Heaven, pubblicato nel 1995, quattro anni dopo la sua morte), incise a Montreux, senza base («finirete voi dopo»), e Mother Love, che non riuscì a finire, «torno domani» e invece questa volta sì, stava davvero morendo. Ultimi versi strazianti di una canzone che mette i brividi: “Mama please, let me back inside”. Mamma, ti prego, riportami dentro.
Ma tornando a oggi, o meglio a quel 13 luglio di quarant’anni fa, beh, ragazzi, quel giorno a Wembley Freddie era semplicemente al massimo della sua esistenza, un uomo che si sentiva bene e cantava come nessun altro, e nessuno poteva immaginare che stavano assistendo a qualcosa di irripetibile.
Ci sono aneddoti ovunque, Bono in soggezione dietro le quinte, Bob Geldof che gli dice non fare il furbo, suona i successi, Freddie che sorride e poi si mangia il palco, il pubblico che non sapeva di dover fare il clap clap ma lo fa, perché quando davanti hai qualcuno che non ti sta chiedendo di partecipare ma ti sta possedendo, lo capisci e basta, e David Bowie che dopo aver visto i Queen gli disse “e ora io che faccio?”.
Oggi sono passati quarant’anni ma se guardate il video della loro performance, se lo ascoltate
bene, se sentite quel respiro collettivo, quel tempo che si ferma, capirete che non è passato niente, perché Freddie Mercury è ancora lì, perché come diceva Freddie “non voglio essere una rockstar, io diventerò una leggenda”.