
Però si capisce subito. Quando Lady Gaga qui al Forum di Assago arriva a bordo di una enorme crinolina scarlatta che si apre mostrando una gabbia piena di ballerini, ecco lì, in quel preciso momento, si capisce che questo è uno degli spettacoli più sontuosi mai portati in giro per il mondo, una sorta di opera pop che non è un semplice concerto ma neppure un musical o un kolossal, è una sorta di tragedia greca e vitale, una scintilla scenografica che mette in scena il dualismo di tutti noi, la polarità degli animi, l'eterno scontro tra la luce e il buio. È uno show lungo, quello di Lady Gaga (iniziato con oltre 40 minuti di ritardo), trenta canzoni e una conclusione spettacolare da Bloody Mary fino a How bad do u want me cantata dal camerino, smontando anche qui uno dei rituali più comuni del pop live, ossia i baci e abbracci finali del protagonista in piedi sul palco mentre le luci si accendono (e in platea ci sono Donatella Versace, Stefano Di Martino, Elodie e Mahmood).
Tutto questo «Mayhem Ball Tour», ossia la celebrazione di Mayhem, settimo disco consecutivo di Lady Gaga a debuttare al primo posto in classifica negli Usa, destruttura il rituale dei concerti e forse, ed è l'unico limite, lo fa fin troppo, rendendo complicato talvolta seguire la sfida tra la buona Lady Gaga bionda e la dominatrice del caos (mayhem, appunto) con i capelli neri che si appoggiano su abiti rosso fuoco, rosso vendetta, tutti i rossi possibili tranne quello dell'eros. Nell'era della nudità obbligatoria, delle pose sfacciate che pretendono di rivendicare libertà, questo è probabilmente il concerto meno erotico in circolazione. In fondo, dai, Lady Gaga è una che inizia lo show seduta alla scrivania in un teatro ottocentesco impegnata a scrivere con una piuma rossa ascoltando arie liriche, quindi cosa gliene importa della posa coatta o dell'allusione becera. Già fatto, signore e signori, dopo Madonna ma ben prima di tante altre oggi finte ribelli di risulta.
Qui è tempo di Abracadabra, secondo singolo da Mayhem, e secondo pezzo del concerto, e la magia è anche il pubblico, qualcuno vestito come alcuni dei suoi personaggi quasi Gaga fosse anche un'attrazione per cosplayer. Dopotutto è una delle poche artiste che in questa fase possa rappresentare per i fan una via di fuga dalla realtà e offrire un altro ruolo di fantasia. Oggi le altre grandi popstar esibiscono o rivendicano, creano obiettivi o nemici. Lady Gaga no. Lei apre una parentesi nella quale ciascuno trova un pezzo di sé e lo può mescolare ai sogni, di solito eterei o addirittura cupi ma mai violenti, anzi, quasi letterari, persino poetici.
Di certo la sua è una scintillante dimostrazione di superiorità musicale rispetto agli standard abituali dei grandi eventi. Al netto dei singoli brani, l'amalgama sonora è unica e difatti Poker face, il brano che la consegnò alla popolarità nel 2008, sta benissimo in scaletta di fianco a Perfect celebrity uscito pochi mesi fa e persino Die with a smile, un piccolo capolavoro pubblicato con Bruno Mars, galleggia alla perfezione tra Shallow e Speechless. Il tutto mentre nella ideale, gigantesca rappresentazione dell'eterna lotta tra «io», scorrono spettrali «medici della peste», rotolano teschi, lei cammina con le stampelle e l'atmosfera è scura alla maniera di Alexander McQueen o Thierry Mugler. Cupa. Dark. Gotica.
Ma vitale, effervescente.
Nonostante sia nel mezzo di un tour mondiale che continuerà in Australia, Giappone e Stati Uniti fino a metà aprile, il bello di Stefani Joanne Angelina Germanotta è che è come se fosse sempre la prima volta. Ha quasi quarant'anni, ha avuto ogni tipo di successo eppure eccola qui come se dovesse ancora conquistarsi quella «fame», quella fama che non a caso era il titolo del primo disco uscito nel 2008 quando Spotify era appena nata e la musica aveva altre regole, altri ritmi, altri conti da saldare. Cambi d'abito frenetici. Trenta ballerini. Fuochi d'artificio e artifici digitali. Ma l'artificio più sofisticato resta il confronto tra Lady e Gaga, tra la bionda e la mora. Come nelle tragedie di migliaia di anni fa, il «cattivo», il male, ha la prima vittoria e nella partita di Poker Face la dominatrice batte l'algida avversaria e l'atmosfera si riaccende. Prima di Killah ci sono vibrazioni quasi metal e Zombieboy è persino inquietante. È la fase del «turmoil», del tumulto, dello scontro di identità che si sa già come va a finire ma è bello lo stesso.
La dominatrice perde e nasce una sorta di frankenstein, un collage di anime che tiene insieme il bene e il male, il chiaro e lo scuro come in tutti noi, che siamo «Born this way», che siamo nati così, e per fortuna ci sono concerti che ogni tanto ci fanno uscire dal nostro ruolo.