"Mussolini morì suicida, in un dente celava una capsula di cianuro"

Alberto Bertotto, pediatra patito di storia raccoglie le testimonianze della figlia naturale del Duce e di un sensitivo che trent’anni fa ebbe una visione sconvolgente. E indaga fino negli Usa

"Mussolini morì suicida, 
in un dente celava 
una capsula di cianuro"

«Questa è una storia che nessuno vuole raccontare, ma che riguarda ciascuno di noi. È una storia che tocca tre generazioni: quella dei ventenni che fa finta di saperla, quella dei quarantenni che fa finta di ricordarla e quella dei sessantenni che fa finta di averla dimenticata». La storia che Alberto Bertotto racconta, «una ragionevole provocazione dedicata a chi ama il mistero della verità», non è facile da credere: Benito Mussolini si sarebbe suicidato masticando una capsula di cianuro.

Gliela consegnò Adolf Hitler in persona poche ore dopo l’attentato a Rastenburg. Nel pomeriggio di quel 20 luglio 1944 il capo del fascismo, intimidito dal Führer, era stato costretto a farsela impiantare seduta stante in un dente finto da un medico tedesco. Lo scetticismo aumenta quando si scopreche questa rivelazione fu fatta più di trent’anni fa dal fantasma del Duce a un sensitivo genovese, Athos Agostini, il quale il 10 luglio 2007 l’ha messa nero su bianco e depositata da un notaio. Senonché Bertotto ha trovato molti elementi chela suffragano, a cominciare dalla testimonianza di Elena Curti, 86 anni, figlia naturale di Mussolini, che vive ad Acquapendente (Viterbo) e che il 27 aprile 1945 durante la fuga verso la Valtellina sedeva accanto al padre nell’autoblindo fermata dai partigiani sulle rive del lago di Como.

Alberto Bertotto, 63 anni, storico per passione, è un pediatra in pensione, originario di Biella, che ha messo nelle sue ricerche lo stesso rigore dispiegato per un trentennio nella cura dei piccoli pazienti in ospedale. Professore universitario di clinica pediatrica fino al 2002, prima a Pavia e poi a Perugia, dove abita tuttora, ha all’attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche. Ma di lui si parlerà molto per questo volume di 287 pagine, La morte di Mussolini, una storia da riscrivere, che arriva adesso nelle librerie per i tipi della casa editrice Paoletti D’Isidori Capponi di Ascoli Piceno. In precedenza aveva scritto Mussolini estremo. E l’anno prossimo uscirà L’odissea di Mussolini, in cui ricostruisce i 50 giorni del 1943 che andarono dalla caduta del fascismo alla liberazione del Duce sul Gran Sasso.

Nostalgico?
«Sono un agnostico della politica. Non vado neppure a votare».
Allora perché questo interesse per Mussolini?
«È un puro interesse intellettuale, da giallista. Nessuna persona provvista di buon senso può bersi la vulgata, per usare una definizione del professor Renzo De Felice, con cui il Pci voleva farci credere che Mussolini e la sua amante Claretta Petacci fossero stati uccisi alle 16.20 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, dal comunista Walter Audisio, alias colonnello Valerio, affiancato da Michele Moretti, detto Pietro, e Aldo Lampredi, detto Guido. Una cosa è ormai certa: il colonnello Valerio fucilò due cadaveri morti da un pezzo».
Come fa a dirlo?
«Non lo dico io. Lo sospettano, oltre a De Felice, storici come Franco Bandini, Luciano Garibaldi, Giorgio Pisanò, Alessandro Zanella, Sergio Bertoldi. Questo Audisio era un pover’uomo, anzi un poveraccio, che negli anni diede quattro diverse versioni dell’accaduto, adattandole in corso d’opera a mano a mano che venivano confutate».
I punti deboli quali sono?
«Audisio dice nei suoi libri che fece sedere Mussolini e la Petacci su una panca di pietra all’ingresso di villa Belmonte: quella panca non esiste. Audisio dice che il Duce, prima dell’esecuzione, biascicò tremante: “Ma, ma... signor colonnello...”. Come poteva il condannato conoscere il grado da partigiano del suo carnefice? Audisio dice:“Poi fu la volta della Petacci, che cadde di quarto a terra sull’erba umida”. Davanti al cancello c’era solo asfalto. Lampredi nel 1966 dichiara all’Unità che Mussolini si aprì il cappotto e gridò: “Sparami al cuore!”. Moretti nel 1995 racconta al giornalista GiorgioCavalleri che le ultime parole del Duce furono: “Viva l’Italia!”». Chi decise l’esecuzione?
«L’immediata fucilazione fu deliberata dal Cnlai, Comitato di liberazione Alta Italia, cioè da Luigi Longo per il Pci, da Sandro Pertini per il Psi e da Leo Valiani per il Partito d’azione. Del resto lo stesso Palmiro Togliatti aveva dichiarato alla radio che non era necessario alcun processo, bastava la sola identificazione. Furono interpellati i partigiani più carismatici, ma tutti rifiutarono l’ingrato compito: Italo Pietra, che nel dopoguerra diventerà direttore del Giorno, era uno di loro. La scelta di far fuori Mussolini, l’amante e gli altri gerarchi fascisti alla fine cadde su Audisio, che come rappresentante della polizia militare nel Cnlai non poteva sottrarsi all’incarico».
Stando alla «vulgata», come andarono i fatti?
«Mussolini è catturato a Dongo alle 15.30 del 27 aprile dalla 52ª brigata Garibaldi. Il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle, detto Pedro, un monarchico, d’accordo col generale Raffaele Cadorna, figlio di tanto padre e comandante dei Volontari della libertà, vorrebbe consegnarlo agli Alleati. Ma nellanotte arriva il cinico contrordine dello stesso Cadorna, che s’è piegato alla sentenza dei comunisti: “Fate fuori lui e la sua ganza”. Il Duce e la Petacci vengono portati a Bonzanigo, nel cascinale dei contadini Giacomo e Lia De Maria. Due partigiani restano di guardia. Alle 14 del 28 aprile da Milano arriva Audisio, che alle 16.20 procede all’esecuzione in assenza di testimoni. Prima incongruenza: perché gli altri 15 gerarchi furono invece allineati sul lungolago di Dongo e fucilati alla schiena davanti alla folla? Il dittatore non meritava forse più di loro il pubblico ludibrio? Audisio dipinge quella dei De Maria come “una casetta incastonata tra i monti”. Assurdo: era la più grande costruzione di Bonzanigo, ben visibile da lontano. E confonde le strade in salita con quelle in discesa. Conclusione: lì non c’è mai stato e s’è pure fatto descrivere male i luoghi».
Lei che cosa ipotizza?
«Sono partito dagli abiti che il Duce indossava al momento della fucilazione: camicia nera, divisa da caporale d’onore della Milizia senza gradi, pastrano grigioverde. Così lo si vede anche nel film Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani. Il regista si servì della consulenza di partigiani comunisti, quindi devo credergli. Ebbene, il cadavere scaricato a Milano, a piazzale Loreto, aveva invece un giaccone di foggia borghese con maniche raglan. Mancava la giacca della Milizia: perché? Non solo: pantaloni, camicia e giaccone erano intatti, privi dei fori delle pallottole, a differenza della sottostante maglia della salute e dei mutandoni di flanella, insanguinati e bucati. Un controsenso».
Da che cosa ha dedotto l’assenza di fori?
«Dalle foto eseguite a piazzale Loreto e all’obitorio. Il professor Giovanni Pierucci, ordinario di medicina legale a Pavia, le ha analizzate con la tecnica digitalizzata dell’arricchimento dell’immagine. Questo porta a concludere che Mussolini sia stato ucciso nella casa dei De Maria mentre era in déshabillé, con colpi sparati a non più di 30-40 centimetri di distanza. Il che avvalora la testimonianza di Dorina Mazzola».
Chi è Dorina Mazzola?
«Una signora, oggi defunta, che abitava a 300 metri dalla cascina. All’epoca dei fatti aveva 19 anni. A Giorgio Pisanò, che la scovò nel 1996, raccontò che la mattina del 28 aprile sentì urlare Lia De Maria: “Non si fanno queste cose in casa mia!”. Udì due spari. Poi vide un uomo calvo trascinato da due partigiani che lo afferravano per le ascelle e una donna che cercava di trattenerlo per i piedi, piangendo: “Che cosa vi hanno fatto, come vi hanno ridotto...”. Prima d’essere freddata a sua volta, la poveretta riuscì a strappargli lo stivale destro. La Mazzola non poteva sapere che si trattava di Mussolini e della Petacci. Ne deduco che il Duce venne ucciso in maglietta e mutandoni. A due-tre ore da una morte violenta subentra la rigidità catalettica, una “lignea statuarietà” scrisse il dottor Aldo Alessiani, medico legale perito del tribunale di Roma, insomma la salma diventa dura come il baccalà e rimane tale per 24-36 ore. Ecco perché fu rivestita con un giaccone dalle maniche raglan, molto ampie, che poteva essere facilmentemaneggiatoanchedachinonavevafamiliarità con la vestizione di cadaveri. La giacca della divisa con le maniche a tubo era più difficile da far indossare».
Diamo invece per buona la versione di Audisio.

«Se Mussolini fosse stato fucilato alle 16.20 del 28 aprile, fino al tardo pomeriggio del giorno seguente la salma sarebbe apparsa irrigidita. Invece Alessiani notò che era rilasciata e ne arguì che il dittatore doveva essere morto intorno alle 5.30. E si soffermò in particolare sul “lubrico braccetto”: alle 14.30 del 29 aprile fu scattata all’obitorio una fotografia in cui i partigiani intrecciarono il braccio sinistro della Petacci col braccio destro del Duce, come se i due cadaveri stessero andando a spasso. Le teste delle vittime erano ciondolanti, tanto da dover essere sorrette. Una turpe messinscena incompatibile col rigor mortis».
E il sensitivo Athos Agostini che cosa c’entra in tutto questo?
«Innanzitutto non si tratta di un medium, ma di uno stimato commerciante. Non evoca gli spiriti: vive queste esperienze contro la sua volontà. Mi ha cercato dopo aver letto un mio articolo sul mensile Storia del Novecento. Non aveva mai raccontato a nessuno quello che gli era capitato. Una notte di settembre del 1975, o del1976, mentre con la moglie e la figlia era in vacanza all’hotel Du Lac di Varenna, sul lago di Como, gli apparve in camera un uomo con le sembianze di Mussolini. Questa figura evanescente gli raccontò che cosa accadde all’alba del 28 aprile 1945. Claretta, mestruata, si allontanò per andare in una rustica toilette posta nel cortile di casa De Maria. Si tolse lemutandine sporche di sangue, il che giustificherebbe la mancanza dell’indumentointimo sulla salma oltraggiata a piazzale Loreto. Il Duce approfittò di quel frangente per estrarre dal dente la capsula di cianuro e romperla fra i molari, ma il veleno non sortì all’istante l’effetto sperato. Al suo rientro incamera, vedendo Mussolini con la bava alla bocca e convulsivante, esiti tipici dell’acido cianidrico, Claretta si mise a urlare. Sopraggiunse uno dei partigiani di guardia, Giuseppe Frangi, detto Lino, che sparò al moribondo».
Ammetterà che gli spiriti non possono entrare nella storiografia.
«Lo ammetto eccome. Ma il signor Agostini sostiene anche d’aver visto nel 1999, o nel 2000 o nel 2001, su Raitre, a tarda sera, un documentario in cui un medico statunitense parlava delle tracce di cianuro trovate nel cervello del Duce. Oggi non ricorda il nome del programma. A quel tempo Agostini scrisse alla Rai per ottenere la videocassetta. Non gli fu consegnata. Allora diede incarico all’avvocato Riccardo Dellepiane di ripetere la richiesta: nessun esito. Poiché l’unica copia di quella lettera fu poi consegnata dal legale al suo cliente, che l’ha smarrita durante un trasloco, sono stato autorizzato da entrambi a recuperare dalla Rai l’originale, in modo da risalire al titolo della trasmissione. Francesca Cadin del servizio Teche ha risposto che le missive dei privati non vengono protocollate e finiscono nell’archivio cartaceo di Pomezia: 600 metri quadrati di scartoffie. Impossibile ritrovarla».
Nel 1999 il professor Pier Gildo Bianchi, l’anatomopatologo che esaminò il cervello di Mussolini, mi disse che non ci trovò niente di strano: «Era il normalissimo encefalo di un sessantenne». E i relativi vetrini molti anni dopo furono gettati per sbaglio nella spazzatura da un necroforo dell’obitorio.
«Sì, ma è anche vero che il dottor Calvin Drayer, maggiore medico e consulente psichiatra, chiese a nome del direttore generale di sanità dell’esercito Usa un campione di tessuto cerebrale del Duce. Due pezzi di cervello vennero spediti a Washington: uno al dottor Winfred Overholser, direttore dell’ospedale psichiatrico Santa Elisabetta, e uno al dottor Webb Haymaker dell’Army institute of pathology, oggi Walter Reed Army medical center. La relazione ufficiale del primo esame non è mai stata resa nota; quella del secondo venne diffusa solamente nel 1966 per precisare che non c’erano tracce di malattie che spiegassero “il perché Mussolini si comportò in un certo modo dittatoriale”, cioè tracce di sifilide, era questo che sospettavano gli americani. Ho consultato entrambi gli istituti: il primo mi ha replicato che non furono trovate prove di intossicazione acuta da acido cianidrico; il secondo ha negato che nei propri archivi vi siano referti di indagini autoptiche sul cervello del Duce. Curioso no?».
Perché i De Maria, a distanza di anni, non avrebbero dovuto raccontare la verità su ciò che avvenne nella loro casa di Bonzanigo?
«È la stessa domanda che ho posto due mesi fa alla vedova di Giovanni De Maria, l’ultimo dei due figli della coppia. Mi ha risposto: “Guardi, professore, il mio Giovanni in tanti anni di matrimonio non ha detto nulla neppure a me”. Come se fosse minacciato».
Lei ha parlato anche con Elena Curti, figlia naturale del Duce.
«Un’anziana lucidissima. Sua madre, Angela Cucciati Curti, la ebbe da Mussolini dopo la separazione dal marito. Durante la Repubblica sociale, Elena era stata messa dal padre a lavorare nella segreteria di Alessandro Pavolini. Mi ha detto: “La mattina del 28 fui portata nella caserma dei carabinieri a Dongo. Entrò il partigiano Osvaldo Gobbetti, che mi apostrofò in questo modo: “Ti abbiamo ammazzato il tuo Duce. Aveva cercato di suicidarsi, ma noi l’abbiamo trascinato fuori e fucilato”. La Curti mi ha anche riferito che suo padre era terrorizzato dall’idea di finire vivo nelle mani degli angloamericani. Temeva che lo esponessero dentro una gabbia a Madison Square, come un animale. Questo dimostra che fu padrone della sua vita fino in fondo.Una versione che, dal punto di vista della destra, attesterebbe la grandezza di Mussolini».
Grandezza? A me il suicidio pare un atto di codardia.
«Concordo.

Fu un gesto di egoismo che va a discredito di Mussolini. In questo modo sapeva di condannare a morte la Petacci. Mai e poi mai i partigiani avrebberolasciato viva la testimone di un evento tanto scomodo».
(434. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it 

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