Muti celebra le «Nozze di Figaro» con fantasia e un pizzico di eros

A Vienna grande successo con un perfetto amalgama di suoni e voci. Il direttore: «Con i Wiener è come avere in mano una Ferrari»

Alberto Cantù

da Vienna

Un melodramma al giorno non leverà forse, come la proverbiale mela, il medico di torno. Certo, però, farà star bene il melomane nonché la cultura, il turismo e pure l’economia (lo capissero nel Paese nell’opera ossia in casa nostra!). Un’opera, un’operetta o un balletto vengono messi in scena da sempre e a ripetizione, 330 giorni su 365, alla Staatsoper di Vienna, «teatro di repertorio» che ha un suo maestro, un coro e un corpo di ballo assieme alla Volksoper e quanto all’orchestra conta niente meno che sui Wiener Philharmoniker.
C’è una solida compagnia di canto stabile e accanto al repertorio, dominante, si danno nuove produzioni o vengono ripresi storici allestimenti: questo dicembre, Lohengrin (direttore Semyon Bychkiv), Falstaff (Daniele Gatti) e - di ieri il «battesimo» con un successo al calor bianco - le mozartiane Nozze di Figaro sotto la bacchetta di Riccardo Muti. Spettacolo proposto nella splendida messa in scena anni Settanta (regia, scene e costumi) di un artista geniale e troppo presto scomparso quale Jean-Pierre Ponnelle.
Alla prova generale il clima è di serenità e rigore, all’austriaca, con un’intesa a colpo d’occhio dove in Italia sono necessari proclami. D’altronde, dice Muti, mai come ora libero e felice di calcare le sale internazionali, «con la Filarmonica di Vienna è come avere in mano una Ferrari. Questi artisti li sento sempre più miei»: e il sempre è contraccambiato.
Nozze di Figaro ovvero la commedia per eccellenza e «perfetta» che Ponnelle ambienta in una Spagna paciosa e ironica dove basta una poltrona malandata per calamitare l’azione o un coretto irriverente per beffare a tutto campo. L’impianto scenico, un giocattolo volutamente povero e agile - minimi sono i cambi per mutare un atto in un altro - è sulle tinte dell’autunno, sui grigi e sui marroni come in un dagherrotipo, ossia con l’effetto lontanante di un mondo al crepuscolo. Fotografie di personaggi e vicende che il regista rende sempre credibili: retti da una logica e un dinamismo teatrale (Ponnelle il maestro) che esaltano un’opera, come questa, fitta di «brani d’assieme» dal duo, al settimino, ai Finali.
C’è Figaro, l’uomo nuovo e borghese (il denaro) il quale si rotola beato tra le lenzuola con Susanna che è quasi sua moglie, ma, fuori dal letto, ha un cervello che è un vulcano, come canterà Rossini nel Barbiere. C’è Cherubino con il suo eros di adolescente più poroso e a 360 gradi che mai, il quale scopre l’altro sesso. Vecchi babbioni come Don Bartolo, Marcellina e Don Basilio sono rigidi e ingessati come le loro deformi parrucche. C’è una Contessa ormai donna matura - è Rosina: il Conte d’Almaviva aveva fuoco fuoco e fiamme per sposarla - e il marito la trascura per le giovani curve di Susanna, che però ha testa e gusto di quel rischio che è la vita per mettere il Conte alle corde.
Muti, si sa, dirige i Classici - da Haydn a Beethoven - forte di una naturalezza e una confidenza maturate nel tempo e oggi senza confronti. Con lui l’Ouverture porta, dentro i suoni sussurrati e lievi «alla Wiener», un alludere erotico che la vicenda renderà esplicito; nei passi più serrati, decide per un passo incalzante ma senza pesantezze - sarà la «folle giornata» di Susanna & C.: il vortice degli eventi - e con un’attenzione trepida al canto come alle squisitezze dei fiati (Vienna oblige).
Il direttore esige una dizione scolpita e quel «chitarrino» che Figaro vuol suonare al Conte facendolo ballare sui carboni ardenti, è una frustata. In «Voi che sapete» uno sfondo orchestrale impalpabile dà risalto a tutta la stupefazione amorosa poi sottolineata dai legni. «Porgi amor qualche ristoro» ha una dolcezza piena di malinconia che si allarga nel velluto dei violini. L’amalgama strumenti-voce sembra preparata col bilancino del farmacista: ora modi insinuanti, poi il racconto scatenato, all’occorrenza energiche e asciutte impennate.
Cast di assoluta eccellenza, incluse le sei voci «di stanza» a Vienna. Michail Roider (Don Basilio) giovane, robusto e dotato basso, la squillante e immacolata Stella Grigorian (Marcellina), l’impeccabile Ain Auger (un Don Bartolo come si deve), lo spiritoso Peter Jelosits (il Notaio), la maliosa Ileana Tonca (una Barbarina dai notturni stupori). Anche il Giardiniere, figura-chiave della drammaturgia, una volta tanto non ha problemi: viene dalla Corea e si chiama Eijiro Kai: è serissimo, piccolo piccolo e con una gran voce.
Quanto alle «star» ospiti, quelle che calcano Scala e Metropolitan, Carlos Alvarez (Figaro) e Ludovic Tezier (Conte) ecco due baritoni i quali gareggiano alla grande, come vuole la dialettica delle Nozze, quanto a nerbo, suoni pieni e flessibili, fantasia a piene mani. Barbara Frittoli (Contessa) sa stendere un velo di desolata malinconia, di struggente rimpianto sul suo personaggio che carica di insolita forza passionale.

Tatiana Lisnic è una Susanna di squisita limpidezza, capace, da attrice e da cantante, di conciliare sfumature sopraffine e plebea schiettezza. Angelica Kirschschlager disegna un Cherubino dolcissimo e magnetico. Di ovazioni a non finire, per tutti e anzitutto per Muti, s’è detto.

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