Myair a terra schiacciata dalle perdite Il low cost non è un modello per piccoli

La crisi - probabilmente irreversibile - di Myair, messa in ginocchio dai debiti e a terra dall’Enac, richiama l’attenzione sul modello «low cost»: di quelle compagnie aeree, cioè, che risparmiando sui costi sono in grado di offrire biglietti a tariffe meno elevate rispetto ai vettori tradizionali. Un modello importato in Europa dagli Stati Uniti, e che negli ultimi dieci anni ha rivoluzionato la stessa percezione del viaggio, creando nuovi flussi di turismo di massa e inedite tipologie di utenti. Uno schema che non è vincente di per sé, ma che premia solo le gestioni rigorose, innovative e solide: «low cost» è, innanzitutto, una mentalità applicata al fare impresa, dove non solo gli stipendi sono all’osso, ma le distanze gerarchiche sono minime, le strutture manageriali leggere, e i presidenti si muovono in taxi, non con l’autista; e dove l’efficienza è una ragione di vita.
Michael O’Leary, l’uomo che ha rilanciato in Europa il successo dell’americana Southwest, ha sempre affermato: una low cost deve nascere autonoma, se è frutto di una riconversione o se viene creata all’interno di un gruppo tradizionale, non avrà successo. E spesso così è stato. Delta, United Airlines, Air Canada hanno provato a creare una loro low cost, ma senza esito; in Europa British Airways ha tentato con Go, poi l’ha venduta. I gruppi ai quali appartengono delle low cost (Air France-Klm possiede Transavia, Lufthansa Germanwings) devono evitare che la concorrenza interna danneggi i bilanci, e che la controllata a basso costo cannibalizzi i normali voli di linea.
In Europa ci sono alcune decine di compagnie low cost, anche piccole e piccolissime, ma nella percezione comune i marchi sono due soltanto: Ryanair e Easyjet che, sommate, trasportano più di cento milioni di passeggeri all’anno. Continuano a svilupparsi, a crescere, con i conti - compatibilmente con la crisi - sotto controllo. La terza, Airberlin, è distanziata: «solo» 28,6 milioni di passeggeri. La prima delle italiane è la siciliana Windjet, con 2,8 milioni; Myair nel 2008 ne ha trasportati 1,5. Briciole, rispetto ai colossi.
Questo è un punto cruciale: il modello low cost esige grandi dimensioni per poter innescare il volano delle economie di scala. Risparmiare mezzo euro a passeggero dà un risultato diverso se i passeggeri sono tanti o sono pochi. Non bastano le vendite online o i bassi stipendi alle hostess. La «massa critica» permette poi di avere una forte leva contrattuale nei confronti degli aeroporti e delle comunità locali: solo le compagnie in grado di assicurare flussi importanti di visitatori possono ottenere le migliori condizioni dagli aeroporti e consistenti benefici - soprattutto sotto forma di campagne di marketing - dalle istituzioni. Ryanair, col suo capillare modello point-to-point ha vitalizzato (o addirittura fatto rinascere) aeroporti provinciali ai margini dei traffici. Sulla sua scia si sono collocate molte piccole compagnie, ma un conto è agire da protagonisti, un conto da comprimari: anche uno scalo come Orio al Serio (Bergamo), caso esemplare del successo di un aeroporto trainato dal low cost, precipiterebbe nuovamente di livello se Ryanair, all’improvviso, decidesse di far base altrove.


Servono poi spalle larghe finanziarie, quelle che hanno permesso a Ryanair nei momenti più difficili del mercato di ordinare 100 aerei al colpo, approfittando degli sconti; quelle che Myair - e, prima di lei, Volareweb - non aveva. Sono necessarie per non scendere a compromessi con i fornitori e per perseguire, fino all’estremo, quegli obiettivi di efficienza che, per le low cost, sono vitali.

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