Napoli, Italia

«La convivenza tra camorra e Stato è finita», scrive Giorgio Bocca nel suo libercolo «napoli siamo noi», zeppo di luoghi comuni, di leggende metropolitane, di pregiudizi razzisti. Confermando il rammarico leopardiano per il gusto perverso di noi italiani di sputtanarci reciprocamente. Mi chiedo: cosa scriverebbe Bocca d'una città come New York con un omicidio ogni ora, una rapina ogni due, una violenza carnale ogni tre? Una città-stato gestita da quattro «famiglie»" mafiose che si spartiscono un budget annuale di tre miliardi di dollari. E cosa scriverebbe di Hong Kong dove queste cifre si raddoppiano? E di Amburgo, Marsiglia, Mosca, Montreal, Budapest, Hanoi, La Paz, S.Paolo, Bucarest, Nuova Delhi e cento altre città, dove la vita è asfissiata dal traffico di droga, di armi, di organi, di schiavi, e il crimine è nell'aria che respiri; cosa scriverebbe? Un bel niente. Perché lo azzannerebbero i diplomatici, i servizi segreti e i suoi stessi colleghi di «autorevoli» testate. Io ci sono stato in molti di questi inferni. La trasmissione si chiamava «Geografia della fame», prodotta da Rai2, ed è sepolta in qualche scantinato di viale Mazzini. Ho visto e documentato cose da far accapponare la pelle. Ho tirato fuori dalle immondizie corpi di meniños che non avevano più occhi, cuore, polmoni, fegato... gli avevano espiantato pure il midollo osseo. E quegli organi, ben refrigerati, partivano per il «ricco Occidente» disposto a pagarli qualsiasi cifra. Ho conosciuto produttori di snuff-movies, film dell'orrore in cui i bambini venivano torturati e violentati fino alla morte. Film con un enorme mercato, nel «ricco Occidente». Ho incontrato alti ufficiali di tanti gloriosi eserciti che vendevano armi ai governi e ai guerriglieri, facendosi pagare con quintali di cocaina. Ho documentato il sacrificio di centinaia di studenti che si davano fuoco nelle piazze per disperazione. Potevo farlo perché avevo trovato la collaborazione di giornalisti che praticavano con onestà il loro difficile lavoro. Bocca intanto, impegnava tutto il suo residuo talento nel chiedere il ritorno di Biagi e Santoro in tv e lo scempio di piazzale Loreto per Berlusconi. Ma, torniamo a Napoli. È vero: la convivenza tra camorra e Stato è finita. In realtà, lo Stato, tranne nel ventennio che Bocca conobbe e condivise, nel Sud non s'è mai visto. S'è visto «il sistema». Un'accozzaglia di bande politico-economiche che intendeva spartirsi democraticamente la torta. All'origine c'era stata la politica di Cialdini che, non potendo controllare il territorio, all'indomani dell'Unità, si accordò con camorra a Napoli e mafia a Palermo, offrendo alla malavita, che c'era da sempre, ma subalterna, l'egemonia. Il medesimo patto di Charles Poletti, dopo lo sbarco in Sicilia, con Don Calogero Vizzini, il «capo dei capi» dell'epoca, fatto sindaco di Villalba. E, dopo i Cialdini e i Poletti arrivò la Nato, arrivò il dollaro, in una città che campava di amlire. Divenuta egemone, la mafia non aveva più alcuna necessità di «convivere» con lo Stato. Tanto più che lo stato appariva inconsistente, corrotto, privo di qualsiasi forza deterrente. La «lotta» che portava alla mafia era di facciata, con lampanti fini elettorali. Il vero colpo alla mafia lo porteranno più tardi Riina e i suoi corleonesi, che sono viddani, non mafiosi. Intanto, con il traffico di stupefacenti, la mafia diventava una multinazionale. Napoli ospitava, in vacanza-premio, Lucky Luciano (il padrino dell'indolore sbarco in Sicilia), e fu l'inferno. La camorra tradizionale detestava la droga. Lo scontro tra rivali si risolveva con lo sfregio. La vita umana era ancora un valore. Basti pensare che il famoso «processo Cuocolo», che mobilitò tutta la città e l'opinione pubblica nazionale, si celebrò per l'uccisione di due usurai. Due morti facevano scandalo. Lucky Luciano il «re della droga», si fece raggiungere dai suoi boliviani. Inizialmente ci fu lo scontro. Poi, con la sanguinaria aggressione dei cutoliani, la vecchia camorra si sfaldò. «Il Sistema» venne a patti con il leader della «nuova camorra organizzata», per trattare con le brigate rosse, e rinunciò a qualsiasi dignità. Crollò anche l'impegno dei tutori dell'ordine pubblico che vedevano i loro funzionari più coraggiosi ammazzati come cani. Da quegli anni, Napoli non si è più ripresa. Il denaro della droga scorre a fiumi, come il sangue. Ha sostituito, per un buon sessanta per cento l'economia locale. Non esistono più «onorate società» in grado di stabilire le regole. Non ci sono più i sindaci del Rione Sanità. Gli antichi guappi sono morti quasi tutti poveri. Oggi, qualsiasi giovanotto intraprendente può diventare milionario nel giro di un paio di mesi. Può pagarsi dei killer, corrompere, investire, montarsi la testa e crepare per far posto a un altro giovanotto aggressivo. «Qui è terzo mondo», scrive un inviato del Corriere in missione al Rione Scampia. No, qui è Italia. Un’Italia che acquista droga, che scopa minorenni schiavizzate, che traffica in armi perfino con gli hezbollah. Napoli è divenuto il cul de sac d'un disastro morale che investe tutto il Paese. Non è difficile addossare al cinismo dei napoletani una bella fetta di responsabilità e non bisogna ricorrere alla solita geremiade, ma le colpe del sistema sono enormi. La mafia si può definire facilmente, senza tanti fronzoli sociologici: è l'industria della trasgressione. Nessun camorrista bussa alla nostra porta per offrirci droga o minorenni: siamo noi che andiamo a chiederle. Siamo noi a finanziarla, la mafia. Basterebbe uno Stato in grado di educare le giovani generazioni ai rischi d'una trasgressione che diventa consumismo, al rispetto per se stessi e per gli altri, alla cultura della fiducia e del senso del dovere nei confronti della comunità. Ma questo Stato non c'è.

Anzi, abbiamo al potere personaggi che leggono nelle droghe un messaggio di «libertà». Gente pronta a denunciare un poliziotto che compie il suo dovere e a concedere l'indulto a migliaia di criminali. Napoli terzo mondo? Ma mi faccia il piacere...

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