NAPOLI Le voci non finiscono mai

Qui non si guarda soltanto con gli occhi ma anche con le orecchie

NAPOLI Le voci non finiscono mai

Prologo in cielo. Quasi certamente, prima di accingersi a creare il mondo, e quindi prima che esistessero il tempo e lo spazio, la terra, le acque, i continenti, le diverse specie vegetali e animali nonché l’uomo, Dio possedeva un esercizio commerciale a Napoli, nella zona compresa tra via S. Gregorio Armeno e via S. Biagio dei Librai.
È probabile che fabbricasse e vendesse statuine del presepe, ed è stato proprio affinando quest’arte umile e splendida come Lui che deve aver maturato l’idea dello scenario nel quale il suo Figlio sarebbe venuto nel mondo: quel mondo che Lui non aveva ancora cominciato a fare.
Creando il mondo, Dio non aveva forse in mente Secondigliano così come appare a noi oggi, ma di sicuro Capri era ben fissa nella sua mente. La conosceva a memoria, c’era stato un sacco di volte: per questo gli è venuta così bene.
Prologo in teatro. Il «la» di questa visita a Napoli mi viene dato da un’anziana coppia che ha preso con me il bus dall’aeroporto verso la città. Il capolinea del bus si trova in piazza del Municipio, vicino al molo Beverello, dove i due signori - che sono di Napoli ma risiedono da trent’anni a Milano - devono imbarcarsi per le isole del golfo.
Il conducente si sente in vena di cordialità.
«Vanno a Ischia?» domanda.
«No» risponde il marito, «noi procidiamo».
«Ah, procedete. E per dove?»
«Non ho detto “procediamo”, ho detto “procidiamo”. Andiamo a Procida».
Ed ecco confezionato un personaggio di Eduardo. Lo riconosco, è il vicino impiccione di Sabato domenica e lunedì.
Sento che in questa ricognizione per Napoli - anzi sostanzialmente per un’unica via di Napoli - incontrerò molto teatro, che non è un camuffamento della realtà, ma solo uno dei suoi modi di presentarsi. Ci sono molte cose in cielo e in terra, e alcune di queste si presentano a noi in forma teatrale.
Le ragioni di una scelta. Ho deciso di fare una passeggiata lungo una delle vie più famose di Napoli, via Toledo. Ho scelto via Toledo per tre ragioni: la prima è che l’ha immortalata il grande Renato Carosone in Io mammeta e tu; la seconda è che via Toledo è il più antico «struscio» d’Europa e probabilmente del mondo; la terza è che via Toledo corre sulla città come una cicatrice tra diverse faglie tettoniche, al margine occidentale dei famosi Quartieri (Spagnoli).
La prima tappa del mio viaggio è al Gambrinus per un caffè. Il Gambrinus è un locale storico, situato in una posizione unica al mondo: davanti il teatro san Carlo e la galleria Umberto, a destra la spettacolare piazza del Plebiscito, sul fianco sinistro via Chiaia e, sempre a sinistra ma a perpendicolo, lei: via Toledo.
Tra piazza Municipio e via santa Brigida la coda del mio occhio passa in rassegna diversi venditori. Hanno tutti tra i quaranta e i sessant’anni, sono tutti abbronzati, portano tutti vestiti poveri. Se ne stanno in piedi dietro i loro banchetti. Vendono fazzoletti scottex, braccialetti e orecchini a tre o cinque euro, cd e dvd pirata. Da un banchetto all’altro si scambiano parole per me incomprensibili. Le consonanti sono ridotte a radi piloni tra vocali che si agglutinano, si condensano, si espandono, precipitano su nuove consonanti.
Guardo le loro facce. Sono facce di gente che sa che tutto è andato sempre così e continuerà ad andare così.
Gente che non crede alla tv e ai giornalisti. Sento che devo imitarli al più presto, se voglio che il mio viaggio abbia un senso.
Fluttuazioni. Da parecchio tempo Napoli appare una città malata. Mesi fa i giornali ne hanno parlato in toni da guerra civile, si salvi chi può, prima le donne i vecchi e i bambini. Ho le mie idee su questa malattia e me le tengo. Non sono qui per questo, la mia ambizione è catturare qualcosa di più.
Però sono strane queste fluttuazioni dell’immagine mediatica: una decina d’anni fa Napoli veniva data per risorta, oggi viene data per morta. Io mi faccio forte del pensiero dei venditori di strada e me ne frego di tutto. Il caffè l’ho preso, ho dato qualche soldo (ma lei ne voleva altri) a una ragazza sudamericana con bambino grasso in braccio, eccomi pronto.
L’ingresso in Toledo è segnato da un grido maschile, roco ma potente, che sale da dietro un nugolo di passanti:
«Una moneta! Una moneta!».
Quello che gli occhi vedono, davanti, è lo struscio come appare oggi. Non più meta di principesse russe, ma di gente perlopiù povera, con vestiti poveri, che si sofferma davanti alle vetrine dei negozi a buon mercato e poi prosegue.
Per un milanese è impossibile non osservare la tipologia di questa gente, perché un mondo così nel centro di Milano non si trova più.
Si avverte, ancora potentissimo, il senso della famiglia. Ci sono gruppi di ragazzini, come dappertutto, ma anche molte madri e molti padri con figli e figlie anche grandi, e molte famiglie al completo.
La gente è più grassa che a Milano, e anche questo è un segno di povertà. I negozi di abbigliamento, che formano la maggior parte qui in Toledo, espongono taglie che a Milano trovi in negozi «specializzati», dove ci si vergogna solo a entrare.
Custodi. Via Toledo è piena di camerieri che vanno e vengono con i loro vassoi, facendo lo slalom tra i passeggianti.
Ma sono un diversivo. Mentre li guardo, rischio di ignorare la presenza silenziosa dei custodi, che se ne stanno fermi, senza espressione, e guardano perlopiù dritti davanti a sé.
È un nuovo grido a richiamare la mia attenzione su di loro.
«A uàuera!» (la f...)
È per me il grido di benvenuto in una nuova e inusuale regione. A Napoli non si guarda solo con gli occhi, ma anche con le orecchie. Le voci sono diverse, più sommesse ma capaci poi di esplodere come dentro una casa. Fischi di richiamo echeggiano sopra le parole, ma chi chiama chi? E perché?
Allora mi guardo bene attorno e li vedo, fermi all’inizio delle vie che, sul lato sinistro di via Toledo, salgono attraverso i Quartieri su su verso Montecalvario, verso il Museo Nazionale e, ancora più su, verso il castello di sant’Elmo.
Sono perlopiù giovani, e se ne stanno perlopiù da soli. Non serve essere un’aquila per capire che vengono dai Quartieri.
Non aspettano nessuno, infatti non si guardano intorno e non tradiscono la minima inquietudine. Sono lì per segnare il territorio, per occuparlo, per indicare un confine, e anche - ma senza troppo zelo - per difenderlo guardando la gente che passa, come per controllare il flusso.
Tutto regolare?
Tutto regolare, passo e chiudo.
Non esiste città al mondo in cui ci si sente guardati come a Napoli. A Milano nessuno ti guarda mai, a Roma poi. Qui, viceversa, mi basta estrarre di tasca il taccuino per segnare una parola, che subito mi pare di essere sommerso da un oceano d’occhi.
L’apparente disordine di questa città somiglia più a un ordine mobile che a un vero disordine. Si percepiscono flussi, intenzioni, gerarchie.
Il tempo. Nessuno chiama via Toledo con questo nome, benché sia il suo nome originario. Per tutti, qui, è «via Roma». Non ho studiato l’argomento, ma dato che a Napoli non esiste nessuna via Roma deduco che questo sia il nome che via Toledo assunse al tempo del fascio. È successo anche altrove: a quel tempo, se non sbaglio, sognavano l’Italia romana.
La differenza è che qui il nome fascista è diventato popolare. Il fatto è che a Napoli la memoria è più lunga. È la forza della famiglia, con le memorie che si compenetrano, trascorrendo da una generazione all’altra. Oggi in Italia vogliono distruggere la famiglia. Così distruggeranno la memoria, generando una bella schiera di pecoroni immemori.
Già. La famiglia. Su un angolo, quasi in piazza Carità, passo vicino a una Punto in sosta. Due uomini, uno sui cinquant’anni e uno sui venti, stanno in fianco alla portiera aperta. Uno dice: forza, papà. L’altro dice: forza, nonno. Dentro c’è un signore anziano, pallido, dall’aria afflitta e stremata, malata, che guarda questi due uomini forti come tronchi, ma pieni di apprensione.


Io cammino per la città per rapire il suo sospiro. Per sentire la presente stagione, «e viva, e ’l suon di lei». Eccola qui: in un nonno alla fine della vita, in un padre pensieroso, in un figlio giovane e bello e con le lacrime agli occhi.
(10. Continua)

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