È nata l’impar condicio Ogni scusa era buona per giustificare il «sì»

MilanoAl voto. Al voto. Per due settimane, dalla fine dei ballottaggi, i referendum hanno inseguito gli italiani e alla fine li hanno acchiappati. Di solito i quesiti provocavano sbadigli, alzate di spalle, facce annoiate. Questa volta è stato diverso. È stata una mobilitazione generale, una chiamata alle armi, e tutto è servito per mobilitare gli italiani. Ogni argomento è venuto buono in un clima sempre più euforico. Del resto lo si era capito subito, lunedì 30 maggio, che questa volta le cabine elettorali, non quelle delle spiagge provvidenzialmente inzuppate di pioggia, avrebbero sedotto milioni di elettori. A Milano aveva vinto Giuliano Pisapia e a Napoli Luigi De Magistris. Bandiere rosse, piazze piene e fazzoletti arancioni. Era l’attimo fuggente e quell’onda, attesa come la manna dalle opposizioni, doveva essere cavalcata.
Così è cominciata la rincorsa. Ed è scattata «l’impar condicio». Di qua la civiltà, di là la barbarie, di qua i buoni e puri, di là i perfidi e malvagi difensori dei più biechi interessi capitalistici: quelli che vogliono assetare i poveri e difendono quelle bombe a orologeria chiamate centrali nucleari. Non c’era partita. Michele Santoro ha inviato le telecamere di Annozero nei reparti pediatrici degli ospedali ucraini. E le telecamere hanno filmato una sorta di piccolo Cottolengo, con i corpicini martoriati dei piccoli innocenti colpiti da malattie inguaribili. L’effetto è stato impressionante: il drago di Chernobyl ha sputato il suo veleno direttamente nelle case di milioni di italiani: il dibattito, eventuale, è morto sul nascere. E quel che non ha detto Santoro l’ha spiegato Adriano Celentano, guru della crociata senza se e senza ma, corredata da musiche e disegni apocalittici sul disastro incombente. I telespettatori, già messi in crisi dal dramma di Fukushima, si sono trovati emotivamente spalle al muro. La pancia del Paese pretendeva un sì. Anzi, quattro sì. Il no è diventato incomprensibile, qualcosa di estraneo se non ostile alla sensibilità media del Paese. Ma soprattutto, l’astensione, fino a oggi lo sport nazionale oltre che un diritto sacrosanto, è stata vissuta come una colpa. Un peccato imperdonabile. Una scelta catastrofica.
Per carità, scienziati, esperti, sostenitori del no sono stati chiamati in tv, hanno espresso pareri e snocciolato dati. Ma è stato un tecnico come Franco Battaglia, autori di libri documentati e collaboratore del Giornale, a spiegare nel salotto di Annozero che il dolore, la sofferenza, la paura avevano soffocato ogni riflessione. E oscurato la forza della ragione. Come nel corso di un’eclissi.
Al voto. Al voto. Anche l’acqua è servita ad accendere il battiquorum. Gli italiani, alle prese con due quesiti non proprio facili, anzi attorcigliati, hanno capito che l’acqua sarebbe stata sequestrata dalle mani rapaci dei privati. I preti di frontiera, già allertati per la sfida nucleare, si sono rimessi in marcia per l’acqua. Con toni che di solito non si trovano nemmeno nell’intimità del confessionale. Padre Alex Zanotelli ha ammonito i fedeli dall’alto del pulpito: «La difesa dell’acqua è un tema altrettanto fondamentale che la difesa della vita rispetto all’aborto. Ed è un principio non negoziabile». Ancora, sempre più ispirato, ha trasformato un sit-in negli esercizi spirituali pro referendum: «Questa non è una manifestazione, ma un incontro di digiuno e di preghiera». Tutti i possibili ragionamenti sul ruolo dei gestori pubblici e di quelli privati si sono dissolti in quel clima savonaroliano di penitenza.
Al voto. Al voto. Tutto serviva per spingere gli italiani ai seggi e dare la spallata a Berlusconi. Anche Berlusconi. È stato calcolato che il voto di rigetto, il voto per reazione al Cavaliere, avrebbe tolto al partito dell’astensione un buon 5 per cento. Tutto serviva. Anche Berlusconi e pure la replica delle sue parole. Quando il Cavaliere ha detto chiaro e tondo «non andrò a votare», quel 5 per cento è stato ricalcolato e portato al 7 per cento. Un pezzo d’ Italia schierato con il sì per fare dispetto al premier. Alla fine persino i dialoghi apprensivi fra Flavio Briatore e Daniela Santanchè sono stati enfatizzati e hanno portato combustibile al partito delle interpretazioni, alle analisi dei giornali, ai racconti e alle narrazioni, come si dice oggi, sulla fine dell’impero. Tutto andava bene. Anche la più piccola sensazione è stata afferrata dai giornali e dalle tv, dilatata e riproposta chissà quante volte per fare breccia. Per giorni e giorni si è parlato solo dei referendum, quei referendum che prima non appassionavano nessuno ed erano solo un cuscinetto fra un programma e un altro. La Rai e le altre televisioni si sono riempite di esperti pronti a risolvere dubbi e ad alimentare nevrosi.

Venerdì, ultimo giorno prima del silenzio elettorale, Rainews ha condotto una lunghissima maratona sui referendum. Ovvero, (secondo molti osservatori) a favore dei referendum. Poi tutti gli umori del Paese sono precipitati nelle urne.

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