Liliana Segre, 80 anni fa la sua liberazione con un'albicocca americana

Oggi senatrice, nel 1945 era sopravvissuta all'orrore di Auschwitz e alle marce della morte. Il primo maggio, con i nazisti in fuga, stremata incontrò i suoi liberatori

Liliana Segre, 80 anni fa la sua liberazione con un'albicocca americana

Ottant'anni sono passati: 80 anni dalla libertà insperata, e riassaporata dopo l'inferno. Era il primo maggio 1945 e quel giorno Liliana Segre, non ancora quindicenne, poté finalmente iniziare a lasciarsi alle spalle l'orrore della deportazione e della prigionia nei campi di sterminio, dopo 12 mesi trascorsi ad Auschwitz.

"Festeggeremo l'80° anniversario della liberazione della mamma con un'albicocca secca, per ricordare insieme il sapore della libertà" ha scritto ieri il figlio Luciano Belli Paci, ricordando quello che è diventato l'anniversario di una vittoria: la vittoria della vita sulle morte.

E le albicocche sono un simbolo. Per Liliana, e per pochi altri sopravvissuti, stremati, la ritrovata speranza ebbe infatti le sembianze dei soldati americani allegri e variopinti che, "proprio come si vede nei film", dalle camionette lanciarono sui reduci barrette di cioccolata, sigarette e frutta secca. E ai suoi piedi cadde un'albicocca secca. Lei, ridotta a 32 chili (fu pesata il giorno dopo in un ambulatorio americano) la raccolse a fatica e la mise in bocca: "Era fantastica, era il sapore della libertà".

Liliana ad Auschwitz era stata rinchiusa il 6 febbraio '44, dopo un'odissea iniziata con l'arresto nel Varesotto - nel corso di un tentativo di fuga in Svizzera col padre - e con la detenzione nel carcere di San Vittore, a Milano, e da lì proseguita con un drammatico viaggio di sette giorni, su un vagone caricato a calci, pugni e insulti e partito con 40 febbraio bambini a bordo dal famigerato Binario 21 della stazione centrale in direzione Fossoli, e infine - secondo le disposizioni dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich - terminata appunto ad Auschwitz. Sei anni erano passati, dalle leggi razziste al campo di sterminio.

Secondo la sua drammatica testimonianza, in quel vagone lanciato "verso il nulla", con poca paglia e un secchio, ci fu il momento della disperazione e del pianto, venne quello della preghiera e infine il momento del silenzio: sguardi che incrociavano gli occhi delle persone amate con la sensazione che sarebbe stata l'ultima volta. Dell'arrivo ad Auschwitz ha ricordato "latrati, fischi e comandi in tutte le lingue", una "distesa infinita di baracche, donne scheletrite con la testa rapata, e donne picchiate che portavano pietre".

Un anno dopo, la guerra grazie all'avanzata degli Alleati volgeva al termine. Ma le prove inenarrabili cui erano stati sottoposti i deportati non erano finite ad Auschwitz. I nazisti, tra la frustrazione e il desiderio di rimuovere tracce dell'orrore, non solo evacuarono il campo ma cercarono di farlo saltare. "Si vedevano fiamme". I prigionieri erano stati avviati verso nord con le spietate "marce della morte". La gran parte di loro morì per la fame, gli stenti ei colpi degli aguzzini. Liliana ha ricordato "la neve insanguinata sul bordo della strada". Le guardie infatti finivano con un colpo le persone che cadevano. Lei sopravvisse, sfinita, anche ricorrendo a una sorta di sdoppiamento di sé, per alienarsi da una realtà così insopportabile.

A Ravensbrück arrivò in condizioni terribili: "Ormai quasi incapace di reggermi in piedi, con una grave infezione al braccio, e vi rimasi una quindicina di giorni". Lì, ha raccontato, i prigionieri non facevano che aspettare la morte. "Non lavoravamo ma non ricevevamo quasi mai da mangiare - ha scritto al Corriere due anni fa - Solo molto raramente arrivava una zuppa disgustosa, che non bastava per tutte. Riuscivano a ottenerla solo le più prepotenti e meno indebolite. Una volta, per raggiungerla, cercai di infilarmi tra le gambe delle altre prigioniere, ma una di loro mi schiacciò così tanto la testa che pensai mi si fosse spezzata. Un'altra volta, sempre in cerca di cibo, aprii una porta, ma vidi solo morti su morti accatastati. Avevo 14 anni, fu scioccante". A Ravensbrück scoprì che anche i nonni Pippo e Olga, che lei credeva al sicuro in Brianza, erano stati deportati. "Me lo svelò una prigioniera italiana che li aveva conosciuti nel campo di Fossoli. Mi disse che parlavano sempre di me, che le avevano mostrato una mia foto. E che erano stati mandati ad Auschwitz. Quando tornai ebbi conferma che era vero e che erano stati uccisi subito dopo l'arrivo".

Dopo tanto dolore, e disumana violenza, si aprì uno spiraglio di luce quando i nazisti, con l'esercito ormai in rotta, gettarono le divise e ruppero le righe indossando abiti borghesi per confondersi tra civili e prigionieri. Invece della morte, dunque, giunse una notizia insperata: "La notizia che i tedeschi erano in fuga. Noi, morti che camminavano, incontrammo gli americani. Un'emozione incredibile".

Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno. Era il primo maggio 1945. E 45 anni dopo, Liliana iniziò la sua opera di testimonianza della Shoah nelle scuole. Il 19 gennaio 2018, anno in cui ricadeva l'80º anniversario delle leggi razziali fasciste, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha nominata senatrice a vita "per avere illustrata la Patria con altissimi meriti nel campo sociale".

E adesso Liliana Segre ha dovuto pure sperimentare l'ostilità degli odiatori sociali che le attribuiscono arbitrariamente posizioni mai avute e dichiarazioni mai rilasciate, non facendo che confermare la minaccia di un antisemitismo mai davvero archiviato.

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