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Quell’omicidio che ci ricorda che il diavolo è ancora tra noi

Taulant Malaj, il killer della provincia di Foggia, dice di aver ucciso la figlia e il vicino di casa perché “aveva il diavolo nel cervello”. Non una scusa. Ma la triste realtà

Quell’omicidio che ci ricorda che il diavolo è ancora tra noi

Forse verranno bollate come superstizioni. Come un qualcosa di medievale e, dunque, che sa di passato. Anzi: che è ormai obsoleto. Ma le parole pronunciate da Taulant Malaj - l’assassino che in provincia di Foggia ha massacrato la figlia di 16 anni e un 51enne che credeva essere l’amante di sua moglie - riportano al centro della cronaca il tema del male. Non della mera azione cattiva che tutti, con intensità e frequenza diversa, compiamo nella nostra vita. Ma del Male assoluto, quello che ti sussurra all’orecchio affinché tu compia le azioni più atroci. Quello che, non a caso, è stato definito “l’omicida fin dal principio”. Il demonio. Che ha due caratteristiche: dividere e ammazzare.

“Non ho visto nulla. Avevo il nero davanti. Era tutto buio e avevo il diavolo nel cervello”, ha detto il killer. Un pazzo? Un uomo che punta tutto sull’incapacità di intendere e di volere, sperando in uno sconto di pena? No. Saremo antichi e fuori tempo massimo, ma crediamo che nel mondo esistano ancora forze capaci di spingere l’uomo a compiere questo tipo di male. Tutte le tradizioni ci parlano di demoni. Di esseri impalpabili che tentano l’uomo, che è costantemente teso tra il bene che vuole e il male che non vuole. Ci sono pensieri che si incistano nella testa e che si autoalimentano, come, probabilmente, è successo anche a Malaj. “Tua moglie ti sta tradendo col vicino, fagliela pagare. Ammazza tutti. Vendicati”. Anche se poi il tradimento non c’è, il dubbio è ormai instillato. E il dubbio chiama la paura. La paura l’irrazionalità. L’irrazionalità i fantasmi della mente. I fantasmi, spesso, la morte. E così Malaj si è mosso, trasformando il nero che aveva nella testa nel sangue della sua stessa figlia, di un altro uomo e riducendo la moglie in fin di vita.

La grande vittoria del diavolo è stata quella di farci credere che non esiste più. Che dopo esser stato sulla terra migliaia (forse milioni) di anni sia andato in pensione. Non è così. Anzi. Forse, è proprio negli ultimi secoli che si è dato maggiormente da fare. Ne La perdita del centro, Hans Sedlmayr racconta che, dopo la rivoluzione francese, molti artisti vengono colpiti da strane febbri che li fanno cadere in uno stato quasi comatoso, di trance. Una volta guariti, cominciano a realizzare strane opere e strani dipinti. Goya, solo per citarne uno, dà alla luce, riesumandoli dalle tenebre, Il grande caprone e La lampada del diavolo. È come se delle antiche e allo stesso tempo nuove forze abbiano fatto irruzione sulla terra. La rivoluzione stessa si è alimentata di sangue, culminando nel regicidio.
A un secolo circa di distanza da quegli eventi, mentre sta celebrando la Messa, papa Leone XIII ha una visione: vede il diavolo minacciare la Chiesa e, atterrito, scrive una preghiera in cui chiede a San Michele arcangelo di “difenderci nella battaglia”. Il Pontefice sembra sconvolto e ordina che questa prece venga recitata al termine di ogni messa “bassa”, ovvero non cantata. Così sarà per circa 80 anni quando, in seguito al Concilio Vaticano II, questa preghiera (insieme a tante altre) finisce nel dimenticatoio. Del resto, pensavano e pensano ancora oggi molti sacerdoti, vescovi e cardinali à la page, il diavolo non esiste più. Perché temerlo e, dunque, perché chiedere il soccorso del principe delle milizie celesti?

Eppure il diavolo c’è. In ogni tempo e in ogni angolo del globo. In Medio Oriente, i musulmani lo chiamano Shayṭān. Gli ebrei, a qualsiasi latitudine, parlano di ha-satan. Anche il buddhismo, la più trascendentale delle religioni, ha il suo demone: Mara. Senza contare i movimenti satanisti, attivi soprattutto negli Stati Uniti, che non solo riconoscono il diavolo ma, anzi, lo venerano pure.
L’uomo percepisce la presenza del demonio. E non solo quando accadono fatti eclatanti, come parlare lingue sconosciute o spostare oggetti con lo sguardo. Ma soprattutto quando viene tentato. Non a caso, una delle prove più difficili di Gesù, che non si è sottratto a nulla dell’esperienza umana, sono proprio le tentazioni del diavolo nel deserto. Sono tre e sono semplici e terribili allo stesso tempo. “Se”, dice sempre Satana. “Se sei il Figlio di Dio”. “Se mi adorerai”. Sono sempre delle ipotesi, alle quali Cristo risponde con la certezza della Parola: “Sta scritto”. Non si muove da lì, resta saldo. Il diavolo non può far altro che arrendersi. Perché il vantaggio del cattolico, di fronte a qualsiasi tentazione, è quella di rimanere saldo nella realtà. Che è buona anche quando fa schifo perché è stata pensata per te. Per il tuo bene. Anche quando perdi tutto e ti chiedi il perché. Se un padre ti ha voluto al mondo è per il tuo bene, che non sempre ha a che fare con ciò che vorresti. Ed è qui che può inserirsi, anzi che si inserisce, il diavolo: “Se Dio ti ama perché permette questo?”. Esistono solo due cose da fare a questo punto: disperarsi e cedere di fronte al diavolo (e quindi alla morte) oppure reagire, iniziare quello che una volta era chiamato il “combattimento spirituale”, cosa sempre più difficile in una società che non vuole più lottare per il bene e che si fa gioco di chi crede (i cristiani, coi loro valori e la loro morale antica, sono tutti cretini, no?).

C’è un’immagine che più mi è fissa nella mente. È quella di Rosalinda Celentano che, ne La Passione di Cristo di Mel Gibson, impersonifica il diavolo. Si vede il suo sguardo fisso, triste, penetrante e malvagio allo stesso tempo, passare tra la folla. Forse, ma non ricordo esattamente, è il momento in cui tutti urlano “crucifige”. Crocifiggetelo. Ammazzatelo. Così sarà. In quell’occasione, il demonio vince solo per un istante. Anzi: per tre giorni. Giustamente non appena Cristo risorge, Gibson fa vedere il diavolo disperarsi, piegarsi e contorcersi. Viene inondato, lui che vive nelle tenebre, da una luce penetrante. Non può mai vincere definitivamente. Può farlo solo se noi glielo permettiamo. Solo se facciamo in modo che i suoi pensieri, i suoi “se”, entrino dentro di noi. O, peggio ancora, se crediamo che il diavolo non si interessi più di cosa accade ad ogni singola persona al mondo. Solo se pensiamo che il demonio non esista più. “Non ho visto nulla. Avevo il nero davanti.

Era tutto buio e avevo il diavolo nel cervello”.

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