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Le strutture, il personale, i migranti: cosa succede nelle carceri della "follia"

L'allarme di psichiatri e volontari: i rischi e i problemi irrisolti dell'abuso di psicofarmaci dietro le sbarre

Le strutture, il personale, i migranti: cosa succede nelle carceri della "follia"

Prima i manicomi criminali, dopo gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), poi le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), infine detenuti con problemi mentali rinchiusi nelle carceri. Cambiano i nomi e i “non luoghi” ma le incognite rimangono sempre le stesse. Tra gli usi e abusi della chimica, le domande tornano sempre: le pratiche rapide e frettolose della psichiatria legata alla cultura manicomiale - cioè la contenzione attraverso un uso improprio di psicofarmaci - sono in voga anche nel 2023?

“L’abuso degli psicofarmaci è un tema che riguarda il dentro come il fuori, ma non è il carcere di per sé che uccide, che produce malattia, ma la solitudine di un dolore che rimane indecifrato e inascoltato”, dice Gemma Brandi, tra le artefici del primo complesso residenziale psichiatrico italiano per detenuti e internati malati di mente, la Srp Le Querce, servito da modello per il progresso dell'internamento giudiziario in Italia. “È stata una vergogna tutta italiana chiudere gli Opg con norme e leggi inapplicabili e aprire il loro 'surrogato' in carcere”, continua la psichiatra, “Siamo diventati una grande Rems”. La Brandi, di carcere e manicomio ne sa molto perché molto ne ha fatto: dai dieci anni di Opg come consulente psichiatra, ai diciotto di carcere con la stessa funzione e altri dieci come responsabile territoriale anche per le prigioni. “Attualmente molti soggetti destinati alle Rems restano “sequestrati” in carcere e altre persone prosciolte ma, pericolose socialmente, attendono a piede libero un posto nelle Rems”, racconta, “Sa quante persone molto malate di mente vengono dichiarate sane pur non essendolo e quante di loro in questo circuito non entreranno mai? L’incubo degli psichiatri è di finire tra le grinfie della posizione di garanzia, completamente male interpretata dalla categoria, che ne ha fatto il cavallo di battaglia per una cosciente e deleteria deresponsabilizzazione. Se io psichiatra dichiaro che un paziente non è malato di mente, cioè che non ha una incapacità, questo esonera anche me, medico, da ogni sorta di responsabilità”.

Dopo aver parlato degli “insopportabili riduzionismi” della psichiatria, snocciola con enfasi quelli posticci, a carattere “patogeno”, affibbiati spesso e, indebitamente, ai luoghi di reclusione. “Il carcere è presentato come il problema, ma non lo è”, incalza. “Una persona non impazzisce una volta incarcerata. I soggetti psichiatrici che commettono atti gratuiti hanno un grave problema di adeguamento all’esame di realtà”, chiosa. Poi racconta un altro aspetto, quello dei “migranti africani affetti da gravi turbe psichiche" che riempiono gli istituti di pena. Sono "talora psicotici" o "autori di efferati assassini". "Purtroppo per averne incontrati a centinaia di soggetti in fuga dal proprio Paese, posso dire che la loro sofferenza psichica precedeva di gran lunga l'arrivo in Italia”, conclude, “Nessuno ne parla come si dovrebbe, ma è ora che le istituzioni operino coraggiosamente e senza ulteriori esitazioni o rinvii, specie considerando i movimenti in corso nel Mediterraneo, altrimenti la situazione potrebbe diventare fuori controllo e ingovernabile”.

E non solo. Con i barconi arriverebbero anche giovani già dipendenti da sostanze. A sostenerlo è Gianluca Guida, direttore dell'Istituto penale per i Minorenni di Nisida. “In genere i minori migranti arrivano da noi che presentano già una storia di abuso da psicofarmaci", dice, "Nella realtà minorile è soprattutto questo tipo di utenza a cercare tali sostanze e, non quella meridionale, che vive invece questa propensione o richiesta come stigmatizzante. I nostri ragazzi migranti raccontano di aver avuto un accesso abbastanza agevole agli psicofarmaci da banco, specialmente in altre realtà europee, come la Francia, la Spagna e la Germania. Ne usano in quantità come elemento integrativo-compensativo alle sostanze stupefacenti per contenere l’ansia, entrando però in un circuito di vera e propria dipendenza”. L'unica soluzione, secondo Guida, è quella di istituire "comunità psichiatriche idonee a gestire il fenomeno del disagio mentale minorile". "Ma esorto a verificare quante ve ne siano mai state attivate su territorio nazionale”, accusa.

A puntare il dito contro il sistema carcerario è pure Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che gestisce più di 10mila volontari. Impegnata da un quarto di secolo con “Ristretti Orizzonti” nell'informazione sulle pene e sul carcere dal penitenziario “Due Palazzi” di Padova, racconta una realtà che molti non conoscono: “Dopo la pandemia vedo zombie imbottiti di psicofarmaci un po' ovunque. Non ho mai riscontrato una situazione così drammatica, di disagio e di aggressività, denuncia, "Le carceri si sono trasformate in serbatoi di autori di reato con problemi da tossicodipendenza e, soprattutto, da malattie mentali, che dovrebbero stare nelle Rems, ma che una Rems non ce l’hanno perché non c'è posto”.

Le fa eco Sandro Libianchi, presidente del Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane, già responsabile medico presso il complesso polipenitenziario di Rebibbia, che accende i riflettori sulla mancanza di personale sanitario nelle carceri: “Non abbonda, ed è chiaro che se si è costretti a trattare mille detenuti da soli, l’unica via, la più semplice, talvolta diventa aumentare le dosi di psicofarmaci”, spiega. E ricorda la tanto intricata quanto delicata relazione tra detenuto e polizia penitenziaria. “Quante volte capita che gli agenti, incapaci di contenere e gestire la cattiva condotta dei carcerati, siano spinti, loro malgrado, a risolvere situazioni a carattere non sanitario chiedendo a chi di dovere se possibile somministrare una dose maggiore di psicofarmaci?”.

Infine, a scendere in campo con il suo affondo deciso è Luigi Pagano, direttore di numerosi penitenziari, ultimo San Vittore dove è stato per 15 anni.

“La prigione non nasce né come pronto soccorso né tantomeno come corsia ospedaliera”, osserva l’ex consulente del Difensore civico della Regione Lombardia e Provveditore per l’amministrazione penitenziaria a Milano, “Negli ultimi quattro anni la situazione è peggiorata. Qual è il senso di stare in un istituto di pena, dove chiaramente non si può ricevere quell'assistenza e quella cura delle quali si ha bisogno?”

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