Giorgio Manganelli io lo conobbi a Milano in via Cino del Duca, a pochi passi da San Babila, nel 1982. Fu nella casa editrice Franco Maria Ricci, al tempo della fondazione della rivista FMR. Manganelli era una delle grandi firme che passavano in redazione, con diverse cadenze: Borges in circostanze eccezionali; Umberto Eco, ogni tanto; Italo Calvino nei suoi passaggi milanesi; Claudio Rugafiori, felpatamente; Giovanni Mariotti, giorno e notte (staccava alle 22, anche a casa Ricci, dove io dormivo); Gianni Guadalupi sempre (ma solo in ufficio).
Manganelli raramente, solo di pomeriggio. Era il solo che sentivo distante, per autorevolezza e corporeità, con completi grisaglia e i pantaloni ad attaccatura alta, le bretelle, gli occhiali con la montatura di metallo. Era insofferente e distaccato; per me, che avevo trent'anni meno di lui, era quasi sacro, come se avesse le stimmate, ed era difficile parlargli: era sempre indaffarato, apparentemente infastidito. Ci univano Luciano Anceschi, lettore di poeti e professore di Estetica alla Università di Bologna, e Eugenio Battisti, studioso ingegnoso, cavilloso e cordiale. Nelle stanze della casa editrice, dopo un rapido concertare articoli, lo ricordo armeggiare con una borsa da ufficio, e poi rapidamente sparire. Mi rammarico di avergli parlato poco, ma era già una leggenda. Era altrove. Ne leggo ora, apparsi sull'Espresso e altrove, gli scritti di critica d'arte contemporanea, disciplina sfuggente e sempre fluida. Spesso noiosa. Anche qui la pagina di Manganelli sfavilla di intelligenza, soprattutto su Gastone Novelli; ma anche su artisti marginali e dimenticati, come Chiara Andreis, Gloria Leonetti, Giovanna Sandri, Franco Nonnis, o assai noti come Fausto Melotti, Lucio Fontana, Toti Scialoja, Gioietta Fioroni. L'interesse per loro compensava la proverbiale antipatia (ricambiata) per Pasolini, che lo considerava un «teppista» della letteratura, come ricorda la figlia Lietta.
Nei suoi saggi di critica d'arte Manganelli rivela perfidamente la menzogna degli artisti, rendendoli parlanti e irriconoscibili, con sorprendente abilità: egli scrive molto meglio di quanto loro dipingano. Nel caso del suo maggior impegno, quello sullo scontroso e letteratissimo Novelli, assistiamo a un capovolgimento, come si vede nei disegni esposti alla mostra di Urbino «Manganelli Finxit. Arte come menzogna»: non è il Manganelli critico che spiega Novelli, ma è l'artista che illustra lo scrittore, derivando immagini inquietanti e didascaliche dalla Hilarotragoedia, un trattato che descrive l'inesorabile discesa dell'uomo verso l'abisso, una cosmogonia negativa che vede tramutarsi il mondo in un inferno. Manganelli respinge il romanzo per risalire alla retorica degli scrittori del Seicento, come Daniello Bartoli, applicandola abilmente al metodo della psicanalisi junghiana che gli suggerisce di interpretare le immagini simboliche del subconscio. Il testo, dilatato oltre il racconto, insegue la profondità della coscienza, tra angosce e addii, e infine definisce una geografia dell'Ade, con innumerevoli digressioni in un linguaggio lussureggiante, irregolare, con varie figure retoriche e parole inconsuete, per procurare una costante meraviglia.
Per Zeno Birolli, Novelli ha in comune con Manganelli «il modo con cui riesce ad innescare la produzione del testo fuori del testo attraverso le forme del commento e della nota. Si può quindi capire perché Novelli esegua, nel '64, una ventina di disegni che illustrano l'Hilarotragoedia e riscriva figuralmente tutto il capitolo sui sobborghi dell'Ade. Manganelli lo attrae come tetro raccoglitore di cataloghi, glossatore di voci impantanate: un re delle parole che mette in scena la spettacolarità della scrittura e la fa danzare clownescamente sulla corda, in bilico nel vuoto».
Novelli si espresse in termini altamente lusinghieri sul testo di Manganelli, mentre lo scrittore manifestò soddisfazione nel vedere la propria opera così ben accompagnata, nella presentazione dei disegni presso la galleria Il Segno di Roma nell'aprile '65. Con limpida e illuminante lettura Manganelli osservò che «nel gesto di Novelli si mescolavano singolarmente una accanita rapidità di invenzione, e una meticolosa, labirintica elaborazione; era, il suo tratto, qualcosa di impossibile: un viluppo nitido, una catastrofe attenta, una esplosione meticolosa». Sottile, penetrante, Novelli usa immagini e parole per chiosare come uno scoliasta il testo di Manganelli, e lo specchia, lo raddoppia, come raramente è accaduto a un illustratore, per una consonanza, una affinità spirituale che va oltre l'equivalenza figurativa. Un rovesciamento dell'ekphrasis.
Novelli scrive, più che non disegni. Prolunga il testo, entrando in Manganelli, facendosi lui, in una sovrapposizione di pensiero e di abissi. Novelli fa luce su Manganelli, mentre Manganelli cerca di nascondersi. Insieme si compiono.
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