C i sono medici che in lunghe carriere riescono a trasformare la propria vita in testimonianza. Attraversano i mutamenti epocali della scienza, le lotte intestine tra i colleghi baroni, le generazioni di futuri luminari accorsi alla loro cattedra ad acclamarli o a provocarli semplicemente accogliendoli. Divengono in questo modo saggi, consiglieri, maestri. Soltanto pochi tra costoro scelgono di affidare alla scrittura i propri insegnamenti: una scrittura divulgativa, semplice, alla portata di tutti, e perciò tanto più umana e ricca. È il caso di Walter Montorsi, incarnazione di mezzo secolo di chirurgia a Milano, oggi fiero ed energico professore di 88 anni che abbiamo incontrato per un memorabile tè nella sua casa milanese, piena di saggi e memoir che portano la sua firma.
Professore, il suo primo ricordo professionale?
«Il mio maestro, Guido Oselladore. Fu lui il primo a dirmi, nel 1949: La farò chirurgo. Così entrai al padiglione Monteggia del Policlinico».
Nel suo libro «Vita di chirurgo» ha raccontato episodi a dir poco «spartani» di formazione da parte di Oselladore...
«Il maestro chiamava tutti noi assistenti coso. Ma dei coso esisteva una graduatoria anagrafica precisa, sicché lui alla fine ci sapeva riconoscere. Ricordo che una volta mi chiamò perché avevo osato scavalcarlo in una richiesta di avanzamento: dopo un interminabile rimprovero, mi afferrò l'avambraccio sinistro e cominciò a stringere. Pensavo che sarei svenuto dal dolore. A volte di notte me lo sogno ancora e mia moglie Lola mi sveglia dicendo: Walter, non devi più avere paura, ormai sei in pensione!».
Com'era lo storico padiglione Monteggia?
«C'erano 245 letti, venti per ogni stanza. Tutti protestavano. Eravamo in 12 aiuti e venti assistenti e c'era una quantità di lavoro da impazzire. Fu così fino a metà degli anni Sessanta. Quel carico oggi sarebbe impensabile per un giovane medico. Ogni tanto mi chiedono se si eseguivano esperimenti sui malati... che cosa vuole che le risponda? Diciamo che con 245 pazienti c'era posto anche per questo».
Gli ospedali sono cambiati...
«In meglio, checché se ne dica, soprattutto a Milano: il Policlinico, l'Humanitas, Niguarda, bellissimi, avanzatissimi. La Milano che racconto nei miei libri non tradisce mai: è coraggiosa, ti chiede solo di lavorare ed è stata sempre pronta a firmare un assegno per finanziare con lungimiranza progetti innovativi, come accadde a me con la prima settimana mondiale di aggiornamento professionale chirurgico. Peccato».
Per cosa?
«La politica ci ha messo lo zampino. Ha inquinato le nomine. oggi a dirigere gli ospedali ci arrivano primari e medici reclutati dagli amministratori. E fa sembrare che i milanesi, e gli italiani, siano tutti ladri: per buona fede, costume o necessità».
Mentre prima decidevano i baroni.
«E almeno però non c'era questa netta separazione tra carriera e merito. Contavano i professori, non gli ospedali. E i giovani medici non si vergognavano di cominciare con il fare le endovenose per mantenere la famiglia».
L'università però è rimasta in mano ai baroni.
«L'università italiana sì. È formata da cattolici e massoni. La massoneria universitaria è proprio come quella della marina, dei carabinieri: è potentissima. Questa è una delle ragioni che mi ha portato molti guai».
Cioè?
«Per le mire di carriera di alcuni medici massoni fui tolto dalla sala operatoria e vissi anni di lotte intestine durante i concorsi banditi negli anni Sessanta. Una vera guerra accademica da cui mi salvò il Ministero della pubblica istruzione, nominandomi Professore d'autorità. Ma la lotta mi aveva fatto rimanere solo. Trovai ospitalità presso il Fatebenefratelli. E nacque una nuova scuola: quella di Montorsi».
Eppure lei è tra i primi accusati di baronia: tre figli maschi, tutti professori.
«Io sono un Montorsi emiliano, dei salumi.
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