Nei tribunali la legge è uguale per tutti Ma non per Mangano

Gentile dott. , mi chiamo Gaetano Imbrociano e sono il cognato di Vittorio Mangano e con grande emozione ho letto l’«Angolo» su mio cognato che spazza via i sottintesi malevoli di certa stampa e forze politiche avverse. Se lei vorrà le farò pervenire la relazione medica concernente Vittorio Mangano in cui si evidenzia in quale stato lo avevano ridotto i 5 anni di permanenza nel carcere di Pianosa e dopo Secondigliano. Dalla relazione si evidenzia tra l’altro che il cancro al pancreas si era manifestato molto tempo prima della morte, essi non lo curarono perché speravano che l’acuirsi delle sue sofferenze e il terrore della morte avrebbero fiaccato la sua volontà. Negli ultimi mesi degli uomini si recarono nella cella dove mio cognato era rinchiuso. Essi mostrarono a Mangano un fascicolo e lo invitarono a firmarlo che dopo, dissero, sarebbe andato a casa. Mio cognato chiese loro come sarebbe potuto andare a casa con tutte quelle condanne che aveva ricevuto. Uno rispose che le condanne erano dettagli facilmente rimovibili bastava che lui fosse collaborativo. L’incontro si concluse con un diniego di mio cognato poiché non poteva inventarsi delle cose che non erano esistite nella realtà. Questi signori con fare alterato risposero «allora muori» e se ne andarono. Vorrei che un giorno si scoprisse il motivo per cui mio cognato è stato perseguitato fino alla fine e i nomi dei carnefici. Dott. Granzotto io faccio parte di una famiglia antifascista: mio padre fu uno dei pochi perseguitati politici che nel 1942 venne arrestato dal regime perché iscritto al Pci clandestino, venne torturato alla questura di Palermo e dopo nella colonia penale di Matera, mia madre ebbe un fratello carabiniere assassinato nel 1945 dalle colonne nazifasciste nel triangolo di Verona; io sono stato un militante della classe operaia milanese, oggi tradita da un manipolo di avventurieri. Mio cognato non era un delinquente e assassino come si vuol far credere e non aveva nulla a che fare con gente come Riina ed altri. Il mio sogno è quello di sperare che un giorno ci sia un giudice a Berlino che faccia giustizia. Dott. Granzotto oggi non paghi di ciò che hanno fatto a mio cognato, stanno orientando la loro disperazione e rabbia tenendo sotto pressione con una campagna mediatica le figlie di Mangano Vittorio che vivono e lavorano onestamente a Milano. Faccio una supplica a tutte le persone di buon senso di lasciare fuori dalle beghe politiche delle persone innocenti e che hanno sofferto abbastanza.
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Non c’è bisogno d'aggiungere altro. Se non che la vicenda giudiziaria di Vittorio Mangano - il «caro estinto» come beffardamente lo chiama Marco Travaglio - è e resta una pagina nera. Anche se non ho nessun motivo per dubitare delle sue parole, non voglio credere alla storia di quei «signori». Però, che nel corso dei due processi Mangano sia stato bombardato di domande su Berlusconi e su Dell'Utri, domande alle quali l'imputato non poteva rispondere perché ignaro dei fatti, questa sì, è una certezza. Altra tragica certezza è che non ostante il dispositivo della sentenza (di primo grado: Mangano non fu condannato in via definitiva) contenesse un preciso riferimento al suo deplorevole stato di salute incompatibile con la reclusione in carcere, Mangano fu tradotto a Pianosa e a Secondigliano, due delle più dure galere sulla piazza. Ottenendo i domiciliari quand’era in coma.

Adriano Sofri, per fare un nome, condannato in via definitivissima ebbe una cella singola nel confortevole carcere di Pisa e per motivi di salute ottenne dapprima la semilibertà, in seguito la sospensione della pena. Due pesi, due misure. Quando in ogni aula di tribunale c'è scritto, grande così: «La legge è uguale per tutti». Ma davvero?

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