Ma nel Carroccio non tutti flirtano col superministro Pdl

RomaMa il ministro Giulio Tremonti nella «ridotta della Valtellina» è poi così al sicuro? Il dialogo privilegiato con la Lega Nord e con il suo dominus Umberto Bossi lo mette al riparo da qualsiasi insidia inventata dai «dottor Stranamore» del «partito della spesa» che pure nel Pdl conterebbe parecchi iscritti?
Di sicuro, nella «linea gotica» che il titolare del Tesoro ha predisposto per difendersi dalle incursioni provenienti da Sud c’è qualche smagliatura. Basta osservare il differente comportamento tenuto dai due «colonnelli» del Carroccio: Roberto Calderoli e Roberto Maroni. Non si può, infatti, affermare che le loro strategie e le loro tattiche collimino. L’abile regia del «generale» Bossi, capo indiscusso dello stato maggiore leghista, nasconde ottimamente le discrepanze.
Calderoli. Giovedì 15 ottobre Tremonti è solo in conferenza stampa a presentare quella Banca del Mezzogiorno, fortemente avversata dai colleghi Fitto e Prestigiacomo. In prima fila, però, c’è il ministro Calderoli, unico collega a manifestare supporto morale all’iniziativa. E quando Intesa e Unicredit decidono di non sottoscrivere gli strumenti di patrimonializzazione ideati da Tremonti chi difende il Tesoro? Sempre Calderoli per il quale un tecnico all’Economia «durerebbe quanto un gatto sull’Aurelia». E poi ieri a RaiTre: «Più che il rischio di elezioni anticipate vedo il rischio di un governicchio». In questo anno e mezzo di governo Berlusconi non c’è stato alcun critico del ministro dell’Economia che non abbia assaggiato una replica piccata del leghista. Dal presidente della Camera Fini al sottosegretario Gianni Letta passando per i grandi banchieri e il «sudista» Miccichè liquidato con un «al sud serve un Obama, non Pulcinella» tutti hanno dovuto fare i conti con lui. Così come non c’è stato vertice politico formale e informale (ultimo quello di sabato) dove Tremonti non sia stato affiancato da Calderoli. Non è un mistero che sull’asse Calderoli-Tremonti nell’estate 2008 si sia giocata la partita del «federalismo fiscale», una corsia preferenziale che ha messo in difficoltà il ministro per i Rapporti con le Regioni, Fitto, che in Consiglio dei ministri non perde mai occasione per rintuzzare queste «affinità elettive».
Maroni. Al «presenzialismo» calderoliano fa da contraltare l’understatement di Bobo Maroni. Certo, la carica di ministro dell’Interno richiede un contegno più «istituzionale», ma quando c’è stato da difendere il «pacchetto sicurezza» anche il pacato Maroni ha tirato fuori gli artigli contro tutto e tutti. Allora perché questi silenzi? La risposta è duplice. Da una parte, il titolare del Viminale non è contento che la Finanziaria non sia stata «munifica» con la Polizia. Dall’altra parte, è normale che un leghista della prima ora come Maroni non faccia i salti di gioia nell’osservare che anche un outsider come Tremonti, considerato dai media come «un leghista ad honorem», in virtù di quelle «affinità elettive» prima accennate possa inserirsi nella successione al leader. Le divergenze, in realtà, risalgono al 2004 e non riguardano le circostanze in cui l’allora titolare del Welfare si scontrava con il Tesoro su Alitalia e sulla riforma delle pensioni (il recente elogio del «posto fisso» firmato da Tremonti cozza ideologicamente con il profilo dell’estensore materiale della legge Biagi). Durante la malattia di Bossi e l’«esilio» tremontiano da Via XX Settembre fu proprio Maroni a dichiarare, a scanso di equivoci: «Noi siamo la Lega, Tremonti mi sembra che sia una cosa diversa».
Bossi. «Finché sono vivo io, non ci saranno pericoli per Giulio Tremonti!», ha dichiarato fieramente il Senatùr uscendo da Villa San Martino sabato scorso. Il calcolo politico è esatto, ma solo alle condizioni attuali: la Lega non ha solo incassato il federalismo fiscale dal Tesoro, ma ha ottenuto pure un congruo rifinanziamento della cassa integrazione che interessa maggiormente il Nord. A questo si aggiunge che nel novero dei ministri scontenti, non c’è il leghista Zaia: alla fine i fondi per l’agricoltura saltan sempre fuori. E questo Bossi lo sa bene. Come sa anche che al Nord «occorrono grandi investimenti da parte dello Stato».

La condizione di equilibrio, perciò non è perpetua: il primo a parlare di riduzione della pressione fiscale nella scorsa estate è stato proprio il Senatùr. Il capitolo successione, poi, è così lontano che, Tremonti o no, non c’è nessuna voglia di parlarne.

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