da Milano
Rappresenta litalianità vincente nel mondo. È Cecilia Bartoli, mezzosoprano di Roma, ma di base a Zurigo, coccolata in Europa e Oltreoceano dove il Time, mesi fa, le ha commissionato un profilo di Maria Callas poi apparso in un numero speciale della rivista. La Bartoli ha inciso alcuni dischi con Pavarotti. Tutto è iniziato con un incontro al Met di New York. È lei stessa a raccontarcelo.
«Cantavamo nella stessa stagione, così ebbi la possibilità di sentirlo dal vivo. Rimasi a bocca aperta, mi dissi: Dio esiste, e purtroppo Dio sè lè ripreso».
E poi cosa accadde?
«Lui venne a una mia prova di Cenerentola anche perché amico del direttore Levine. Alla fine mi raggiunse in camerino e alludendo al Rondò finale, pagina terribile per noi, mi disse con quella esse modenese Ma sei proprio una campionessa. Era così...».
Che cosa ha rappresentato per lei?
«È stato un mito vivente, credo che la sua fama superi quella di qualsiasi altro cantante, anche di musica leggera. La sua popolarità era già solida prima dellavvento dei Tre tenori. Era una persona stupenda; e la voce, uno Stradivari».
Può raccontarcela?
«La voce di Pavarotti era un dono divino, una voce solare, unica e irripetibile. Ora che non cè più ci manca un raggio di sole».
Lei ha lavorato molto con lui?
«Non quanto avrei voluto. Per ragioni di repertorio, essendo io un mezzosoprano, le nostre strade a un certo punto hanno preso direzioni diverse.
Lunedì, nel teatro del Giglio di Lucca, Cecilia Bartoli presenterà il suo ultimo cd Decca che è un omaggio a un altro mito vivente: il mezzosoprano Maria Malibran.
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