Per la Libia è iniziata l'era del dopo Gheddafi. Come in uno spettacolo che deve risultare credibile e appassionante, tutto si sta muovendo nella direzione dello scacco matto al dittatore con un'azione congiunta dei ribelli libici che operano a terra coadiuvati dai bombardamenti dell'aviazione della Nato formalmente legittimati dall'Onu. Lo stesso nome dell'operazione per liberare Tripoli, «Alba della sposa del mare» (Fajr Arus al Bahr), coniato dallo spirito poetico e focoso degli autoctoni, vuole suggellare l'autonomia della rivolta libica e la sua intima sintonia con lo spirito della legalità internazionale. Ormai siamo alle battute finali per il dittatore più longevo del Medio Oriente, al potere da 42 anni.
Ora siamo tutti soddisfatti e ripetiamo all'unisono che finalmente in Libia s'instaurerà la democrazia, si affermerà la libertà e si garantirà il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Il messaggio veicolato dalle cancellerie occidentali e da taluni Paesi arabi che hanno già assaporato la rivolta popolare o che per timore di esserne contagiati inalberano scaramanticamente il vessillo della libertà e della democrazia, è che siamo prossimi a una grande festa di cui tutti possiamo rallegrarci, perché il cambiamento che ci sarà corrisponderà con certezza alla nostra concezione della civiltà e che finalmente la nuova Libia libera e democratica darà il proprio contributo al consolidamento della pace e della sicurezza internazionale.
Ma è veramente proprio così? Anche dai video trasmessi dall' edizione on line del Giornale , l'avanguardia dei ribelli in marcia sul centro di Tripoli scandisce lo slogan «Allah Akhbar» (Allah è grande) mentre infilza il coltello nell'immagine su stoffa del volto di Gheddafi, tra loro figurano non pochi barbuti che rievocano i combattenti islamici impegnati sui vari fronti della jihad, la guerra santa islamica dall'Afghanistan alla Somalia, esibiscono il comportamento di chi è ispirato dall'odio e dallo spirito di vendetta più di chi esprime con certezza e orgoglio la volontà della maggioranza della popolazione che aspira ad affrancarsi dal dittatore.
Mi auguro che almeno i comandanti della Nato e i nostri ministri della Difesa sappiano veramente chi sono i cosiddetti «ribelli libici », abbiano la certezza che tra loro non ci sia una consistente presenza di combattenti islamici il cui obiettivo strategico non è la Libia laica e democratica, bensì lo Stato islamico e teocratico. La domanda è d'obbligo visto che lo stesso Gheddafi, così come riportato in un commento pubblicato dall'edizione on line del New York Times lo scorso 4 agosto, ha ammesso di aver negoziato con gli islamici radicali che collaborano con i ribelli libici, per pervenire a un accordo con loro e dissuaderli dal sostenere un progetto di stato laico e liberale.
Ebbene sembra proprio che Gheddafi abbia fallito nella sua impresa. Ma il dato di fondo che emerge è che sono proprio gli islamici radicali, legati sia ai Fratelli Musulmani sia ai movimenti jihadisti simpatizzanti con Al Qaida, il nucleo di maggiore incisività tra quanti stanno combattendo contro le forze rimaste fedeli a Gheddafi. Ed è assolutamente lecito dubitare della capacità della Nato e dell'Occidente di individuare gli interlocutori giusti, dal momento che fino a pochi mesi fa i nostri leader si prestavano volentieri a fare anticamera e a genuflettersi di fronte a Gheddafi nella sua tenda eretta nel deserto. Quante lodi e quali apprezzamenti sono stati coniati per esaltare e ingraziarsi i suoi favori! Un nostro ministro degli Esteri osò persino additare la Jamahireya, il sistema politico del «governo delle masse» inventato da Gheddafi, come la vera alternativa ai regimi arabi che cominciavano a tremare di fronte all'imperversare delle rivolte popolari in Tunisia e poi in Egitto. Non credo proprio che i nostri dirimpettai dimenticheranno facilmente la realtà del nostro sostegno a Gheddafi né credo considereranno credibile la nostra vocazione alla libertà e alla democrazia.
Proprio in Libia, più che in qualsiasi altro Paese mediorientale, la Nato e l'Occidente si sono screditati e il loro intervento militare viene unanimamente considerato come finalizzato al controllo delle risorse petrolifere e dei fondi sovrani libici più che mai vitali per risollevare le sorti della finanza internazionale. Quanto agli islamici radicali, sono sufficientemente scaltri da usarci fintantoché li porteremo al potere, per poi rivoltarsi contro di noi in quanto «infedeli» non appena gli sarà data l'opportunità.
E se proprio vogliamo immaginare quale sarà lo scenario prossimo in Libia, non dobbiamo far altro che guardare quanto sta accadendo alle sue frontiere, in Tunisia e in Egitto, i due paesi che abbiamo lungamente osannato per la rivolta popolare che ha scalzato dal potere Ben Ali e Mubarak, mentre ora si ritrovano sempre più in balia sia delle forze islamiche radicali legate ai Fratelli Musulmani sia delle forze nazionaliste panarabe, unite dalla negazione del diritto di Israele a esistere come Stato del popolo ebraico, dal sostegno ai terroristi palestinesi di Hamas, dalla discriminazione e persecuzione dei cristiani che rifiutano lo status di «dhimmi», sottomessi alla sharia (legge coranica), o che rivendicano una loro identità autonoma.
Ecco perché rivolgo ai comandanti della Nato e ai governanti occidentali questa domanda: siamo proprio certi che in Libia non stiamo aiutando gli islamici radicali a conquistare il potere?
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