Politica

Nel commando due mammine kamikaze

Marcello Foa

Come a Beslan, come al teatro Dubrovka di Mosca. Ma loro non sono «vedove nere» cecene. Loro non devono vendicare fratelli uccisi, figli rapiti, sorelle stuprate. Loro gli orrori della guerra non li hanno mai vissuti. Perché sono inglesi, di origine pakistana probabilmente, ma inglesi. E giovanissime: hanno poco più di vent’anni. Madre una, incinta l’altra. Eppure facevano parte del commando di 24 persone che stava per far saltare in aria dieci aerei. La polizia le ha arrestate e poi ha fatto calare il silenzio. Nulla si sa di loro, nemmeno i nomi. Un solo testimone racconta; si chiama Imtiaz Qadir ed è il rappresentante di un’associazione musulmana, la Waltham forest islamic association. «Gli agenti sono arrivati in piena notte. Hanno arrestato una giovane musulmana, portando via anche il suo bambino di sei mesi. Non avevano scelta: è troppo piccolo per essere separato dalla madre». Sei mesi e già in carcere. Sei mesi e protagonista di una vicenda che avrebbe potuto avere un epilogo tragico. Impossibile non porsi quella domanda: se, come probabile, lei era una kamikaze, il giorno dell’attentato avrebbe lasciato il figlio a qualcuno o lo avrebbe portato con sé a bordo? E cosa pensare della sua amica, disposta a togliere la vita a se stessa e a centinaia di passeggeri innocenti, pur avendo in grembo una creatura?
Il solo pensiero sconvolge: quel gesto è la negazione dell’istinto materno. Invochi una ragione, ma non la trovi, nemmeno volgendo lo sguardo al passato, in Palestina o in Cecenia dove le donne-bomba sono una realtà da anni.
Reem Riyashi è stata la prima kamikaze di Hamas. Due giorni prima di immolarsi al valico di Eretz, a Gaza, uccidendo quattro soldati israeliani, si era fatta fotografare con il figlio di tre anni e un kalashnikov in braccio. Reem non voleva morire: era stata costretta a togliersi la vita per riscattare l’onore della famiglia dopo essere stata sorpresa con l’amante. Anche la cecena Zelikhan, che a 19 anni uccise 14 persone durante un concerto rock a Mosca, non voleva morire: fu spinta al martirio dai familiari per lavare l’onta di essere andata a letto con un cugino. Persino nella scuola di Beslan le «vedove nere» non volevano morire e, soprattutto, non accettavano che fosse fatto del male alle centinaia di bambini tenuti prigionieri nella palestra. Due di loro provarono a chiedere clemenza al capo del commando, che per tutta risposta le fece saltare in aria, innescando con un dispositivo a distanza l’esplosivo che portavano alla cintura. Non rinunciarono a proteggere i figli degli altri, anche quelli degli odiati russi. L’istinto, sempre l’istinto.
E allora perché quelle due ventenni erano pronte a compiere l’atto più orribile? Non lo sapremo mai. O forse sì. Gli esperti avvertono: su dieci donne kamikaze, nove agiscono sotto costrizione o per vendetta. Solo una lo fa per convinzione, quasi sempre religiosa. Lo fa per sentirsi una «fidanzata di Allah», nei cieli di Londra un giorno di agosto.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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