Tunisi - Addormentarsi con il profumo della speranza e risvegliarsi con il lezzo dei cadaveri bruciati. Succede a Tunisi in queste ore. Succede da trent’anni in tutte le piazze del Medio Oriente e del Maghreb. A partire da quel gennaio del 1979 a Teheran. Nelle piazze c’erano gli studenti di sinistra, gli intellettuali filo occidentali, i riformisti, il popolo oppresso e le minoranze oppresse. Tutti pronti a sacrificarsi per cacciare il tiranno. Eppure un attimo dopo la rivoluzione assunse il volto arcigno dell’Imam Khomeini e dei manipoli d’ayatollah pronti a ricambiare tanta disincantata illusione con galera, torture ed esecuzioni di massa. In Tunisia la realtà potrebbe rivelarsi non troppo diversa. Non vedere il fervore integralista non significa averlo esorcizzato. La Savak iraniana diede la caccia a mullah e predicatori per 15 anni. Eppure l’ondata khomeinista crebbe nel silenzio delle moschee per trasformarsi, al momento giusto, nel timoniere della protesta.
La repressione di Ben Alì potrebbe alla fine rivelarsi altrettanto inutile. I passaporti falsi usati dai terroristi spediti in Afghanistan - alla vigilia dell’11 settembre - per far fuori il comandante Massoud arrivavano proprio dai covi di un Gruppo Combattente Tunisino diventato - già allora – l’estensione maghrebina di Al Qaida. I suoi capi oggi sono in prigione, ma la cappa repressiva e lo stretto controllo dei media non permettono ancora di capire cosa sia successo nelle moschee. Non sappiamo quale sia l’influenza di Hizb al-Nahda, il vecchio Partito della Rinascita legato ai “Fratelli musulmani”. Non sappiamo quanto contino i predicatori legati ad Al Qaida Maghreb. Quest’incognita ricorda molto quella dell’Algeria del dicembre 1991. In quei giorni le elezioni, arrivate dopo i moti e le stragi del 1988, sembravano un’occasione per sostituire il socialismo corrotto e fallimentare del Fln con multipartitismo e democrazia. Il voto, segnato dalla vittoria al primo turno dei fondamentalisti del Fis e dal blocco del processo elettorale per mano dei generali, si rivelò, invece, un tuffo nel baratro d’una guerra civile costata 200mila vite. La situazione tunisina sembra, all’apparenza, diversa. La vulgata informativa di queste ore descrive una rivolta scevra da fanatismi ideologici o religiosi. Un’insurrezione nata dalla rabbia di una gioventù senza speranza e di una borghesia tradita. Un furore moltiplicato dal giornalismo di Al Jazeera e dall’inedito potere di Twitter e Facebook. Ma pensare ad un esercito mosso da sincere ispirazioni democratiche o attribuire ad una fantomatica classe politica riformatrice la capacità di trasformare il Paese in una nuova bengodi democratica può esser fatale. Un esercito dove le promozioni sono frutto della lealtà all’autocrate di turno non genera da un giorno all’altro “generali” illuminati. E non cancella l’odio di chi per anni ne ha subito l’inflessibile repressione. Soprattutto in un Paese islamico dove religione e cultura spesso trascurano i concetti di compassione e perdono.
Le storie mediorientali di questi anni lo hanno puntualmente confermato. In Irak la cacciata di Saddam è costata - alla fine - altri 150mila vittime fra attentati, scontri settari e combattimenti con gli americani. Il tutto per ritrovarsi con un Paese minacciato dalla pesante influenza iraniana, dal riesplodere del fanatismo qaidista e dalla spietata persecuzione dei cristiani. La rivoluzione dei cedri innescata in Libano dall’uccisione dell’ex premier Rafik Hariri non ha dato frutti migliori.
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