Roma Assediato da tre lati: così si ritrova il Pd nel day after del decreto salva-Pdl. L’imbarazzo è forte, qualcuno si defila, altri mugugnano e vorrebbero urlare, la maggioranza si barcamena, i leader storici come Veltroni e D’Alema parlano per interesse o per dovere.
Il Quirinale li chiama in correità, ricordando che i capi dell’opposizione erano stati i primi a dire di «non voler vincere per abbandono dell’avversario», e che però non hanno poi collaborato a cercare un «opportuno accordo» in Parlamento sul tema liste. Antonio Di Pietro intanto scavalca il Pd e lo inguaia, scagliandosi contro Giorgio Napolitano e chiedendone nientemeno che l’impeachment. Col risultato che la maggioranza di centrodestra si trasforma in paladina del capo dello Stato e della sua firma al decreto, e che il centrosinistra rischia di «regalare Napolitano a Berlusconi», come paventa un dirigente Pd.
I bersaniani fanno quello che si può, seguono in piazza i dipietristi, ma ci tengono a far sapere che il grande capo del Colle non c’entra nulla. Al povero Pierluigi Bersani tocca parare i colpi, e camminare in equilibrio su uno scivoloso crinale, separando ciò che Di Pietro vuole unire, le responsabilità del governo da quelle del capo dello Stato. Deve condannare il decreto «ad listam», mobilitare la piazza (la manifestazione unitaria del centrosinistra era stata già concordata, con lo stesso Di Pietro e con Sinistra e Libertà, già nella notte di venerdì), fare della forzatura legislativa compiuta dalla maggioranza uno strumento di propaganda per il voto: e nel Pd c’è la convinzione che il centrodestra «pagherà un prezzo elettorale non indifferente» per l’operazione salva-liste. La parola d’ordine è rassicurare il Quirinale senza lasciarsi spiazzare dalla piazza. Ma certi toni aspri dell’intervento di ieri del presidente segnalano che il malumore è rimasto, e che la chiamata a raccolta di tutti i dirigenti democrat in sua difesa, da Walter Veltroni in giù, non è bastata a dissiparlo. «Eppure non ho mai visto un Pd compatto come in questa occasione - sottolinea l’ex ministro Paolo Gentiloni - contro chi attacca strumentalmente Napolitano, come fa Di Pietro, e contro la maggioranza che gli è andata addosso come un treno per imporgli il decreto».
La realtà è che dentro il Pd il fronte degli intransigenti è ampio, comprende l’area ex prodiana, il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, la presidente del partito Rosy Bindi, ma anche come il veltroniano Enrico Morando. Nessuno sposa l’impeachement, ma certo non brindano al Colle. Del resto, come faceva notare più di un dirigente, il problema non sono solo Bonino e Di Pietro, il guaio è che siamo in campagna elettorale e non possiamo far finta di niente».
Non manca il veleno. Si parla di quinte colonne che hanno giocato di sponda tra Quirinale e Montecitorio. Il sospetto insinuato da Marco Pannella è insidioso: «Se Napolitano si è mosso così vuol dire che aveva un mezzo via libera dal Pd», non avrebbe firmato senza «una sponda da quelle parti», ha detto il giorno prima al Corsera. La mattina dopo, intervenendo a Radio Radicale, ha precisato meglio: «Non ho detto che il Pd aveva dato via libera, e anzi ho ribadito la mia fiducia in Bersani. Ma mi chiedevo se sarebbe prevalsa la linea di altri...». Altri chi? Il leader radicale butta lì sornione il nome di Nicola Latorre. Che è come dire: Massimo D’Alema. In casa radicale - ma l’ipotesi viene confermata anche da anonimi e maliziosi dirigenti Pd - si sussurra da tempo che i dalemiani non si strapperebbero i capelli se a Roma vincesse Renata Polverini. Ossia se vincessero Fini, Casini & famiglia. E venerdì il presidente della Camera è stato tra i più strenui sostenitori di un decreto che serviva molto più al Lazio che alla Lombardia, dove il Tar si è infatti pronunciato ieri a favore di Formigoni e senza far ricorso all’aiutino «interpretativo».
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