Nell’ansia di condannare Silvio hanno fatto saltare il processo

MilanoAltro che legittimo impedimento. A mandare a gambe all’aria il processo a Silvio Berlusconi per l’affare dei diritti tv potrebbe essere - quanto e più della legge approvata dal Parlamento e controfirmata da Napolitano - un pasticcio tutto interno alla macchina della giustizia. Detto in parole povere: il presidente del tribunale che sta processando il Cavaliere sarà costretto nel giro di una manciata di udienze a lasciare Milano e tornare ad amministrare la giustizia in quel di La Spezia. A ordinarne il ritorno in Liguria sarà il Consiglio superiore della magistratura, in ossequio alle norme che regolano la complessa e un po’ burocratica macchina amministrativa della giustizia italiana. E a quel punto per il processo a Berlusconi non resterà altra strada che ricominciare da zero: rinvio a nuovo ruolo, come si dice in gergo. Nuovo tribunale, nuovo presidente, nuovi interrogatori, con l’orologio della prescrizione che intanto ticchetta inesorabile.
Il caso ruota intorno alla figura di Edoardo d’Avossa, sessantasei anni, già presidente di sezione del tribunale di Milano. Per capire come si sia potuto creare l’inghippo, bisogna fare un salto indietro di quasi due anni, quando il Parlamento approvò un’altra legge: il lodo Alfano, quello che bloccava i processi alle più alte cariche istituzionali. D’Avossa, che stava già presiedendo il processo per i diritti tv, sospese tutto in attesa che si pronunciasse la Corte costituzionale. Ma in attesa che la Consulta si esprimesse, venne trasferito a dirigere il tribunale di La Spezia.
Il 7 ottobre scorso, quando la Corte costituzionale abrogò il lodo Alfano, a Milano si dovette decidere cosa fare del processo al premier. Ricominciare da capo? O richiamare in città D’Avossa? Prevalse questa ipotesi. Così il 19 novembre il Csm decise di «applicare» (cioè trasferire provvisoriamente) il giudice a Milano per le udienze già fissate fino al 18 gennaio, nonché per quelle che si sarebbero tenute il lunedì o il sabato per altri sei mesi. Fine. Non sono possibili altre proroghe. A luglio, D’Avossa dovrà tornare alla sede di appartenenza. Il giorno esatto ancora non si sa, perché i termini sono ancora in corso di calcolo al Csm. Ma una cosa è sicura: per quella data non c’è alcuna possibilità che il processo sia finito, a prescindere dalle nuove norme sul «legittimo impedimento». Tanto che in questi giorni sia la Procura milanese che i vertici del tribunale milanese si stanno interrogando su come uscire dall’impiccio. Ma vie d’uscita, per ora, non se ne vedono: a meno che il Consiglio superiore della magistratura, di fronte alla eccezionalità del processo in corso a Milano, reputi legittimo un provvedimento altrettanto eccezionale di proroga per D’Avossa. Operazione - dal punto di vista tecnico - piuttosto ardua.
Lo spettro dell’azzeramento del processo non impedisce che nel frattempo accusa e difesa affilino le armi in vista dell’udienza di lunedì prossimo, primo banco di prova della legge sull’impedimento. La norma votata dal Parlamento è stata vistata ieri dal ministro della Giustizia Angiolino Alfano, e apparirà oggi e domani sulla Gazzetta ufficiale. E quindi lunedì incomberà sull’udienza presieduta da D’Avossa. Ma i legali del capo del governo, Niccolò Ghedini e Piero Longo, hanno già depositato in cancelleria un’istanza in cui - legge o non legge - chiedono il rinvio del dibattimento perché Berlusconi è impegnato in un viaggio di Stato in America che lo terrà lontano per tre giorni: tema, la sicurezza nucleare del pianeta, e in aggiunta incontri bilaterali con il presidente brasiliano Lula e il segretario di Stato Usa Hillary Clinton. Un programma, insomma, davanti al quale appare improbabile che D’Avossa ritenga prioritaria l’esigenza di tenere udienza.
Ma lo scontro sarà rinviato solo di una manciata di giorni: perché il 16 Berlusconi torna in Italia, e quindi sabato 17 potrà essere fissata udienza.

Se in quella sede i suoi difensori chiederanno che venga applicata la norma sull’impedimento, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro - secondo quanto riferito nei giorni scorsi dall’agenzia Apcom - contesteranno la costituzionalità della norma, seguendo il canovaccio dell’intervento critico del docente universitario Alessandro Pace ospitato sulle pagine di Repubblica l’8 febbraio.

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