da Palmahin
Il filmato scorre lento. Immagini sgranate di un Libano sassoso, deserto. Un gruppo di ombre nell'aurea bianca dall'infrarosso, le armi in mano, il passo felpato nel grigiore della notte. Il capitano O. muove il mouse, stringe l'immagine. La didascalia recita Beint Jbeil, 26 luglio. «C'ero io al comando, guardate...». Ha 24 anni, centinaia di ore di volo negli occhi e nella memoria. È un senior commander, coordina le missioni del suo aereo senza pilota con i reparti a terra e gli elicotteri. Trasforma le ricognizioni in assalti. Può decidere se colpire o risparmiare un obbiettivo. Le ombre sono a terra, allineate in un fossato. I mitragliatori aprono il fuoco ad intermittenza.
Il capitano O. stacca il mouse. «Questo è il momento più difficile. Potrebbero essere anche dei nostri, ho l'aereo a tremila metri, ma non è questione di distanza. Di giorno potrei guardarli in faccia. Di notte con l'infrarosso non sono sicuro al cento per cento. Mi fermo, mi consulto con il pilota, con l'addetto alle immagini. Stacchiamo, facciamo un altro giro, controlliamo l'immagine da un'altra angolazione». Il terreno ruota di 180 gradi. Nell'occhio della telecamera compare la linea di fuoco israeliana, il drone la supera, torna sulle ombre biancastre, sulle canne avvampate. «Ora - sussurra il capitano - posso dare l'ordine». Per altri secondi il gruppetto allineato nella polvere prosegue il suo concerto di fuoco: poi una vampata, una fumata bianca cancellano guerriglieri e paesaggio. Secondi senza vita, poi dalla cortina lattiginosa escono tre uomini in fuga. L'occhio del «drone» li segue. Nella boscaglia, poi con un balzo giù in un fossato, la testa bassa, le falcate cariche d' adrenalina dentro alle macerie di una casa, fuori da una finestra dall'altra parte. Il capitano O. ha pronto l'ordine definitivo. «Ma guardate». La freccia del mouse è sulla cupola di un edificio, intatto, squadrato. I sopravvissuti spingono la porta, scompaiono dentro. «È finita così, ne abbiamo colpiti alcuni, ma gli altri si sono rifugiati nella moschea. Quella possiamo tirarla giù solo se la usano per colpire le nostre postazioni».
Alla base del 200º squadrone le missioni degli Heron si susseguono senza sosta. Voli nel cuore del Libano. «Ovunque ce ne sia bisogno per tutto il tempo necessario», specifica il capitano. Chi alla parola «drone» immagina modellini miniaturizzati cambi subito idea. L'aviazione israeliana lavora agli aerei senza pilota da 40 anni. Il primo squadrone «drone» nasce nel 1971. Due anni dopo i primi aerei senza pilota sorvolavano i campi di battaglia della guerra del Kippur. Con la prima invasione del Libano dell'82 sono di uso comune. Dallo scoppio della seconda intifada nel settembre 2000 sono un'arma strategica. Lo sono ancor di più sui fronti del conflitto libanese. Gli Heron del 200º squadrone, bestioni da 16 metri ciascuno con circa 40mila ore di volo in sei anni, sono aquiloni a reazione da cinquecento chili imbottiti di carburante, circuiti integrati, antenne e sensori. Ogni «drone» in volo ha una decina di uomini al suo servizio. Il primo e l'ultimo sono i pilota addetti a decollo e atterraggio. Fanno librare il gigantesco occhio volante con la magia di un joystick. Tornano per farlo atterrare. Quando l'Heron è in volo la regia è nei parallelepipedi d'acciaio allineati ai lati della pista, connessi al cielo dalle parabola bianche. In quel cubicolo d'acciaio, schermi ed elettronica, il comandante, il pilota e l'addetto alle telecamere seguono l'operazione. Il pilota a destra regola velocità, altezza e rotta con tre manopole. L'uomo della telecamera disegna con un joystick le immagini sul plasma. Il comandante osserva, chiede, coordina, si consulta via radio con elicotteri d'assalto e comandanti in azione sul terreno. L'Heron resta in volo anche un giorno intero, il suo equipaggio ruota ogni cinque ore. Da qui dentro sembra veramente di volare sul Libano a tremila metri di quota. Un volo silenzioso e rilassato. Senza rischi e senza tensioni.
«Questo è il nostro vantaggio ed il nostro privilegio. Da qui posso decidere di uccidere un uomo o salvargli la vita, ma a differenza di chi sta inginocchiato nel fango o piegato nella torretta di un carro armato non ho nessuna fretta. Posso guardare con calma, ponderare, decidere, senza farmi prendere dal panico o dall'eccitazione».
Il capitano O. fa scorrere un altro filmato. È di due mesi fa a Gaza. C'è un gruppo di palestinesi armati, camminano nel mirino della telecamere, pronti a venir trasferiti a quello d'un elicottero e inceneriti da un missile. Un bambino s'aggrappa alla canna di un lanciarazzi anticarro, saltella tra i militanti in fila, li segue passo per passo.
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