Cultura e Spettacoli

Nella Catania malfamata degli anni ’30, pensando a Jean Gabin

A circa quindici anni dalla sua scomparsa, il nome di Goliarda Sapienza ha ancora la forza di rilanciare una vecchia sfida fra due generi opposti di lettori: fra chi crede che la vita e la letteratura siano due realtà diverse, da tenere separate, e chi pensa che i romanzi siano piuttosto un modo di prolungare il gesto e l’azione. Non è dunque necessariamente un bene che Goliarda Sapienza abbia avuto una vita debordante ancor prima di nascere, come il Tristram Shandy di Sterne. La madre era infatti una figura centrale, ed una delle prime di sesso femminile, del socialismo italiano di inizio Novecento; una donna che aveva fatto sette figli sette con un anarchico poi passato al fascismo, ma Goliarda l’aveva avuta da un avvocato e sindacalista catanese, Peppino Sapienza detto «l’avvocato dei poveri». A sedici anni la figlia dell’avvocato è già a Roma, a studiare teatro e a recitare. Negli anni Cinquanta intrattiene una lunga relazione con il regista Citto Maselli e compare in piccoli ruoli nelle pellicole cinematografiche, tra cui il bellissimo e spietato Lettera aperta ad un giornale della sera, sempre di Maselli, che può essere considerato come il meno plumbeo, e a tutt’oggi il più godibile, dei film apertamente comunisti. Poco prima di morire, a Goliarda capita persino il fatto inaudito di essere condannata per un furto commesso in casa di un’amica. Passerà alcuni mesi a Rebibbia, in prigione. Muore nel 1996 a Gaeta.
Con una vita tanto ingombrante a fare da sfondo, come accostarsi senza pregiudizi al lascito letterario della scrittrice catanese? Quando, alcune stagioni fa, l’ambizioso romanzo postumo L’arte della gioia fu presentato dall’Einaudi come un capolavoro, per giunta reduce da un discreto successo in Francia, la reazione della critica cisalpina non fu del tutto amichevole: nel giro di un mese dall’uscita del volume era già possibile raccogliere una manciata, se non di stroncature, di ridimensionamenti. Accadrà lo stesso con Io, Jean Gabin (Einaudi, 124 pagg., 17 euro)? Ci auguriamo di no, perché in fondo la stoffa della narratrice Goliarda l’aveva. Senza contare che si tratta di pagine che, azzardiamo, sono in sintonia con i gusti del lettore italiano, e rappresentano il vertice qualitativo di un genere che ha un grande mercato. A proposito: il titolo allude a qualcosa di più di un’identificazione: ad una metamorfosi. Chissà che effetto farà, nell’epoca dei wanna be e dei replicanti di vip, vedere una bambina percorrere i quartieri malfamati della Catania anni ’30, fra prostitute ambosessi, pupari e intrecciatori di fiori di gelsomino. E vederla superare mille ostacoli armata solo del desiderio di imitare lui, il divo antidivistico di Alba tragica e Porto delle nebbie.

Magari qualcuno capirà che per diventare grandi non basta mai essere se stessi: bisogna decidersi ad uscire dal guscio, e poi scegliere il modello giusto.

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