Nella fantascienza ora vince la paura

Negli anni ’60 il tema dominante era il futuro. Nel terzo millennio moda e pubblicità attingono da film come «Star Wars» e «Matrix»

Tullio Avoledo

Ricordo che nel 1977 portai la mia ragazza di allora a vedere Guerre stellari al cinema e poco mancò che ci lasciassimo. Non mi parlò per una settimana, e le sue prime parole furono «Ma che c...ta mi hai fatto vedere?». Dopo di allora i film di fantascienza sono sempre andato a vedermeli da solo. Ricordo che all'epoca, sulla rivista di fantascienza Robot, s'innescò un acceso dibattito fra i giovani fautori del film di Lucas e gli ammiratori di Spielberg e del suo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Lucas, secondo alcuni, sarebbe stato di destra, Spielberg di sinistra. Mah.
Chissà se adesso quei ragazzi incanutiti hanno cambiato idea comparando le tirate anti-Bush di Star Wars Episode III e la paranoia spielberghiana de La guerra dei mondi... Fatto sta che nel 1977 la fantascienza era un genere marginale e in declino, che Lucas e Spielberg stavano rivitalizzando e sdoganando per il pubblico del futuro. Cioè per noi. Oggi la fantascienza è un genere trionfante, che contamina e modifica col suo linguaggio visivo pubblicità, moda, architettura: i progetti per il villaggio olimpico londinese del 2012 sembrano usciti dalla copertina di un pulp americano anni '60, e ho contato almeno dodici spot pubblicitari ispirati a Matrix. Per non parlare del fatto che sembra esista addirittura una Chiesa della Forza, che conterebbe fra i suoi santi Yoda e Obi Wan Kenobi. In alcune università americane, invece del tedesco o del francese, si studia come seconda lingua il Klingon, idioma di una coriacea specie di alieni della serie Star Trek.
Anche se portano lo stesso titolo e si rifanno alla stessa opera letteraria, fra La guerra dei mondi con Tom Cruise e la versione del 1953 c'è un abisso, in termini di messaggio e di tecnica. Solo la pochezza degli attori è rimasta uguale. Ma cosa contano gli attori, in un film di fantascienza? Poco, ora come allora. Quello che importa sono gli effetti speciali. E questo è un campo in cui siamo decisamente progrediti. Tanto progrediti che le animazioni computerizzate stanno venendo a noia, e che i registi più in gamba (vedi Tim Burton) tornano alle vecchie tecniche vintage, ai pupazzi animati e alle astronavi fatte coi pezzi delle scatole di montaggio, come nel primo Star Wars.
Perso l'entusiasmo del futuro proprio di una parte delle pellicole degli anni '60, quello che accomuna i film di fantascienza è ormai soltanto la paura. Paura ottenuta a colpi di effetti ed effettacci speciali che sono metafore e visioni di un futuro che infila radici subdole nell'oggi, tutto intorno a noi. La fantascienza confina con l'horror, e entrambi sconfinano nella realtà. Terminator governa la California. L'ecatombe dei grattacieli di Manhattan nei film di Emmerich precede di poco il crollo vero delle Twin towers.

I film creano (o per meglio dire ricreano) mitologie, inventano divinità surrogate come il Neo di Matrix, e un linguaggio visivo apparentemente originale ma in realtà omologato e industriale come un hamburger di McDonald's, come un negozio Benetton alla periferia di Tokyo. Tanto che le vere fughe nell'irrealtà ormai uno deve andarsele a cercare nei film di Rohmer, o in certe pellicole iraniane nate e morte al festival di Cannes.

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