Stenio Solinas
nostro inviato a Cannes
Comanderesti, senza che nessuno te lo imponga, il plotone d'esecuzione che fucilerà tuo fratello? Giustizieresti con un colpo di pistola al cuore un povero ragazzo, traditore per paura, nella cui casa sei stato tante volte a mangiare, la madre che ti adora, i fratelli che pendono dalle tue labbra? E ancora: come soldato accetteresti di praticare la tortura, di bruciare case, di terrorizzare vecchi, donne e bambini, di essere l'incarnazione stessa della forza per evitare che un'altra forza opposta e contraria bracchi te sino alla morte?
Si esce da Il vento che scuote l'orzo (The Wind that shakes the Barley) di Ken Loach commossi, umiliati e con un senso di vergogna. Innalzi tutte le mattine la tua frettolosa preghiera laica alla libertà di stampa, di pensiero e di parola, ma non ti sei mai chiesto veramente quale prezzo saresti disposto a pagare per conservarla o per difenderla, fino a che punto ti batteresti per riaverla e fino a dove la protezione di te stesso e dei tuoi cari, non nel senso della pura sopravvivenza fisica, ma in quello della dignità di essere umani, potrebbe e dovrebbe arrivare. Abituati a vivere in pace e in democrazia non sappiamo più bene cosa possa significare un potere imposto in casa tua che ti dice come devi comportarti, non accetta di discutere, vuole che tu ti limiti ad obbedire. Che fare? Che faremmo?
«Ho scelto l'Irlanda in un momento particolare della sua lotta per l'indipendenza» dice il regista, «quando l'Inghilterra accetta alla fine di ritirare le sue truppe, vuole però in cambio una sovranità limitata del nuovo governo e minaccia, in caso contrario, di scatenare una repressione senza quartiere. La guerra civile irlandese ha inizio allora, fra i sostenitori di una indipendenza mutilata, considerata comunque come un male minore, e chi invece la ritiene un tradimento e vorrebbe resistere a oltranza».
Settant'anni, minuto, cortese, alla sua tredicesima presenza a Cannes, pluripremiato ma mai consacrato con la Palma d'oro del miglior film, con Il vento che scuote l'orzo Ken Loach pone una seria candidatura alla 59° edizione del Festival. Applaudito in sala dalla critica, il film ha tutto per piacere al grande pubblico: superba è la ricostruzione d'ambiente, senza sbavature la recitazione, privo di retorica e di manicheismo il modo in cui i singoli protagonisti rappresentano le diverse posizioni in campo. «Non è una storia vera, ma è costruita sulle base delle memorie e dei documenti dell'epoca» dice lo sceneggiatore Paul Laverty che con Loach forma un sodalizio consolidato da quindici anni e nove film di lavoro in comune. «Le ferite della guerra civile sono in Irlanda ancora aperte e gli strascichi della lotta armata dell'Ira sono arrivati sino ai nostri giorni».
Ciò che affascina e sconvolge nel film ha la crudezza priva di effetti speciali con cui guerra e resistenza sono rappresentate. «Non esiste una violenza romantica» concorda Loach, «e l'impatto che essa ha su psicologie giovani è devastante. Tuttavia, la voglia di giustizia, di indipendenza, di libertà portano sempre a una reazione nell'animo umano, c'è sempre qualcuno che vuole reagire. E la violenza è quasi sempre l'unica soluzione che ti resta».
Critico dichiarato dell'intervento inglese in Irak, Loach non ci sta a un uso propagandistico del suo film. «Le mie posizioni in materia sono note, ma non sono venuto a Cannes per sbandierarle. Se mi si chiede qual è l'attualità di The Wind That Shakes the Barley posso solo dire che essa deriva dal semplice fatto che c'è sempre nel mondo qualcuno che occupa il tuo paese e c'è sempre qualcuno che lotta per cacciarlo».
Le facce e la recitazione di Cillian Murphy, Pàdraic Delaney e Liam Cunningham, danno alla storia l'impatto devastante della veridicità, ma è nelle figure femminili di contorno, spesso non professioniste, che il film acquista un'ulteriore dimensione tragica eppure poetica. «Ciò che colpisce nella vicenda irlandese» osserva Laverty, «è il supporto femminile, in specie durante la lunghissima resistenza antibritannica. Madri che nascondono i ribelli, sorelle che fanno da agenti di collegamento, nonne che mantengono unita ciò che resta di una famiglia nonostante le morti, le distruzioni, le separazioni. Quando poi la guerra diverrà fratricida, c'è questa impotenza per la quale nessuna vendetta ha un senso, ma solo il pianto, il dolore, il rifiuto e il silenzio».
Il titolo del film viene da una struggente canzone ottocentesca di Robert Dwyer Joyce: «Fu penoso rompere con parole di lutto/i legami che ci univano/ma più penosa ancora/è la vergogna del ferro straniero che ci incatena/Allora ho detto: all'alba andrò nella valle/e raggiungerò i coraggiosi che si uniscono/mentre un vento leggero scuote l'orzo».
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