nostro inviato a Monticchio (l'Aquila)
C'è freddo quando arriviamo a Monticchio, un paesino alle spalle dell'Aquila all'alba. Un
freddo pungente e cattivo, di quelli che si infilano sotto i vestiti e ti entrano nelle ossa. Saranno
l'una o le due del mattino, e dobbiamo ancora montare tutte le tende della colonna mobile dei
soccorsi della Regione Lombardia che è partita ieri pomeriggio per l'Abruzzo.
Trenta mezzi, cento uomini, la metà volontari. Sono arrivati anche gli psicologi. Un campo da allestire in uno spiazzo di 100mila metri quadrati con un pavimento di asfalto duro e umido. Per fortuna ci sono le brandine, i ragazzi della protezione civile, dell’Anpas Lombardia e di tutti gli altri contingenti che sono venuti qui per l’emergenza terremoto, che montano il necessario ad una velocità impressionante e con risultati eccellenti. In poco più di un’ora è già tutto pronto. Ma chi avrà la forza di dormire questa notte? Ci sono delle macchine accanto al nostro campo con i vetri appannati. Sono quelle degli sfollati che arrivano alla spicciolata anche da noi per trovare un rifugio. Lungo la strada fino a Monticchio, ce ne saranno a migliaia di macchine piene di anziani, bambini, uomini e donne che le hanno trasformate nella loro casa. L’unica che è rimasta per ora.
Lo spettacolo è desolante: ci sono massi ovunque per terra, muri sfondati, tetti sventrati, chiese divelte. Il segno della disperazione però lo si vede quando incrociamo i primi sfollati di notte con le coperte addosso. Camminano lungo la carreggiata con i mezzi dei militari che sfilano ad un centimetro dalle loro giacche e i lampeggianti delle ambulanze che gli indicano la strada. Sembra di stare in guerra. Non è l’emozione, la suggestione del momento. Magari fosse così. Purtroppo, è tutto vero. La radio continua ad aggiornare il bilancio dei morti che sembra non si fermi mai. Eravamo rimasti a cento fino alle 20 e invece ora l’abbiamo superato. E poi il terremoto, quel maledetto terremoto che non ci vuole lasciare in pace. Da quando siamo arrivati in questa regione, ne avremmo sentite almeno due di scosse. Poi nella notte un altro paio, ancora più forti. La branda che si muove e all’inizio pensi di essere tu ad avere le traveggole. Invece no. Non ti stai sbagliando. Purtroppo è tutto vero. Così vero, da sentirlo con le mani sui tubi di metallo. La gente ti guarda incredula e ti chiede: «L’hai sentito anche tu?» e ti fa cenno di appoggiare le dita per terra.
Nella notte arrivano i primi sfollati a chiedere riparo e all’alba iniziano a litigare. Disperati, stravolti, distrutti. Basta una coperta per scatenare l’inferno. Hanno addosso gli abiti di due giorni fa, alcuni arrivano in pigiama. Altri sono riusciti a tornare a casa per prendere qualcosa in più. Che guaio per loro se non ci fossero i campi dei soccorsi. Che guaio per loro che non hanno nessuna intenzione di abbandonare le loro abitazione e che anzi, le sorvegliano nottetempo, piantando le tende in giardino o mettendo le auto sul ciglio del marciapiede. Inutile tentare di convincerli ad andare da un'altra parte. In albergo per esempio. L'attaccamento o forse semplicemente lo shock è troppo. Almeno per ora. Dategli tempo. Gli uomini della protezione civile e del soccorso sanitario durante la notte escono continuamente per fare gli interventi. Recuperano corpi, trasferimenti di persone malate e tutto quello che succede in un condizioni di emergenza, maxi emergenza.
Nelle tende si dorme poco. I rumori dei generatori all'esterno e il via vai di uomini, mezzi, allarmi non danno tregua. E poi ci sono queste maledette scosse a tenerci svegli. Nelle prime ore del mattino sono arrivati anche i container con le cucine, i bagni e tutto quello che serve per allestire la tendopoli per gli sfollati. Ne ospiteremo cinquecento qui in questo campo. Ieri gli uomini hanno preparato più di trecento pasti. Basta spostarsi di qualche centinaio di metri per vedere tutti gli altri campi e un dispiegamento di forze e di mezzi di soccorsi che ti fa pensare che almeno nell'emergenza, si riconquista un barlume di umanità e di generosità. Sì, lo si legge nei visi dei ragazzi dei vigili del fuoco, avvolti nelle loro divise polverose. Si appoggiano alle ringhiere di un parapetto. La giornata vola via.
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