«Nerazzurro nel cuore senza amici nell’Inter»

Chi se lo immagina col bandierone (neroazzurro) sotto il letto, cambi scenario. Chi lo descrive il solito ultrà interista prestato per qualche giorno alla panchina del Catania, si aggiorni. Walter Zenga è quello di sempre, l’uomo ragno di una volta, portierone frenato solo da una maldestra uscita (Napoli, mondiali ’90, Italia-Argentina alle battute finali, imbattuto da un bel tot di minuti) e adesso aggrappato alla classifica del Catania e alla salvezza finalmente a portata per tentare di accreditarsi ufficialmente come allenatore affidabile, degno del calcio italiano che l’accolse nel Brera, dilettanti, a Milano.
Perciò guai a parlargli del suo passato da interista. Non perché lo rinneghi, anzi («ne sono fiero» ripete a cronisti ed amici al telefono) ma perché gli sta qui, sul gozzo, quel che accadde nelle ore successive a Inter-Liverpool, alle dimissioni improvvise di Mancini e alla ricerca virtuale di un traghettatore. «Tutti a dire, no, Zenga no: sarebbero questi i miei amici?» chiede tra il divertito e l’infastidito a chi insiste con questa storia dell’interista che sbarra la strada alla Roma del suo amico Luciano.
Già, la cosa singolare è proprio questa: Zenga ha l’Inter tatuata sulla pelle («perciò a Torino, i tifosi della Juve mi hanno insultato a sangue, e nessuno della Juve è venuto alla fine a scusarsi, eppure mio figlio è tifoso bianconero»), ma i suoi rapporti sono tutt’altro che idilliaci. L’abbraccio con Massimo Moratti, nella notte del centenario, è l’unica istantanea sorridente. Il resto è arsenico e vecchi merletti. «Non so e non voglio sapere quel che accade all’Inter; guardatemi, non ho mica il ciuffetto, la polo bianca e il pullover verde...» ripete facendo il verso al look di Mancini senza nascondere una rivalità tutt’altro che calcistica e che affonda le radici nella rispettiva gioventù quando l’interista divenne l’uomo e lo sposo di Roberta Termali, l’ex di Roberto Mancini appunto.
Zenga preferisce Luciano, qui inteso come Spalletti («ci incontrammo in un Padova-Empoli e gli dissi che ne avrebbe fatta di strada»), gli garba il calcio della Roma e non cita mai quello dell’Inter, perciò sembra triste dinanzi al divieto per i tifosi romanisti ma poi chiarisce che «a parti invertite non ci sarebbe stato il can can politico» per evitare di finire dalla parte sbagliata.
Alla fine, nella settimana che può tributargli il lasciapassare per entrare a tutti gli effetti nel calcio italiano, Walter Zenga è concentrato in modo ossessivo su se stesso e sul Catania, sul proprio futuro. Come gli accadde, da ragazzino, quando soppiantò nientemeno che Ivano Bordon, portiere dell’Inter di Fraizzoli.

Walterone è abituato a vivere da solo, nell’enclave di una porta di calcio, circondato dalle sue cento, bellissime donne, che non lo lasciano mai, semmai lo inseguono e lo pedinano, a San Benedetto del Tronto (dove conobbe la sua prima moglie, Elvira Carfagna) come a Bucarest (qui l’incontro con l’ultima, Raluca, che l’aspetta tutte le sere a Baia Verde, fuori Catania).

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